Sorpresa: l'agricoltura italiana si sta rigenerando. Come? Grazie a tanti giovani i quali, forti di competenze ed esperienze in altri settori, portano idee e prospettive d’impresa, di reddito e di sostenibilità totalmente innovative. Fanno tanta qualità e fanno anche cultura. E sta nascendo un autentico movimento dei giovani agricoltori da tenere d’occhio.
Lo abbiamo indagato nel numero di settembre del Gambero Rosso (e il neoministro Teresa Bellanova ha confermato la nostra tesi: il futuro dell’agricoltura è dei giovani). Qui un'anticipazione.
L'agricoltura in Italia
L'Italia è prima in Europa per numero di giovani occupati in agricoltura. Così Coldiretti ha stigmatizzato in sintesi i dati Istat relativi al lavoro e alla disoccupazione nello scorso mese di aprile 2019. Di più: l'impiego di under 35 nel settore agricolo farebbe registrare numeri in controtendenza rispetto al dato occupazionale giovanile in Italia, con un incremento percentuale di oltre il 4% rispetto all'anno precedente.
Ma chi sono questi giovani che tornano alla terra?
È necessario sgombrare il campo da qualche stereotipo di troppo; l'idea romantica di un sistema neo-rurale, un po' fricchettone, che implica una vita votata all'eremitaggio e al sudore non ripagato è qualcosa che non appartiene al movimento agricolo di cui vogliamo parlare: un movimento nuovo, dinamico e in evoluzione, che raccoglie esperienze diverse su tutto il territorio nazionale. E che raccontiamo e individuiamo in queste pagine sostanzialmente in anteprima, nell’auspicio e nella convinzione che da qui partirà una piccola grande rivoluzione capace nel medio periodo di cambiare il percepito complessivo sul mestiere dell’agricoltore.
Buono? Pulito? Giusto? Sì, ma pure redditizio
Il comun denominatore è innanzitutto un approccio all'impresa agricola nuovo, perché teso a conciliare la sostenibilità economica con quella etica e ambientale. E innovativo, anche perché supera le diffidenze e la competizione sterile tra realtà che in fondo mirano tutte allo stesso obiettivo: fare rete – e vedremo più avanti come – per stimolare la rinascita di ecosistemi produttivi e rigenerati, che riscoprono il senso della comunità e il valore della terra. Senza dimenticare, però, il giusto profitto. Buono, pulito e giusto, insomma. Ma anche redditizio. Perché scommettere sulla qualità (altro comun denominatore imprescindibile) può dar da vivere a chi sa avere le idee chiare, e dunque una visione programmatica e programmata dell'impresa agricola. Gli elementi che entrano in gioco sono numerosi, e complementari: accurata pianificazione di costi, energie e variabili in campo, elasticità mentale, grande capacità comunicativa e, perché no, attitudine al marketing. Tutto questo, e molto altro, sono i giovani e giovanissimi contadini italiani che stanno lasciando le città per trovare fortuna in campagna.
Il capitale terra: la rigenerazione del suolo
Al centro della riflessione di ciascuno, c'è comunque sempre la terra: è il capitale più importante e dev'essere rispettata. L'altro elemento forte è la tendenza a un'agricoltura di prossimità fatta di piccole realtà che spesso lavorano su fazzoletti di terreno marginali per rigenerarli, promuovendo la biodiversità e la fertilità del suolo: è perfettamente conciliabile con un approccio imprenditoriale profittevole, votato a incrementare la qualità dei prodotti ma anche la loro quantità. Perché grazie a nuove ricerche e tecnologia, spesso piccolo appezzamento non corrisponde a piccolo raccolto, anzi.
È quanto dimostra la storia di Myrtha Zierock, neppure 30 anni e idee molto chiare. Cresciuta nell'azienda vinicola biodinamica di famiglia (Foradori) a Mezzolombardo (Trentino), Myrtha ha studiato Scienze ambientali in Germania, coltivando (è proprio il caso di dirlo!) un pallino per l'orticoltura che ben presto si è spinto oltre l'hobby: “Ho cominciato a interrogarmi sulla qualità del cibo, spinta anche dai miei studi sulla tutela ambientale: non dimentichiamo che l'Europa è un paesaggio agricolo, e noi dobbiamo capire come tenerlo in vita”. L'incontro con l'agricoltura biointensiva ha fatto il resto: in Canada, presso l'azienda orticola di Jean Martin Fortier (i Jardins de la Grelinette), si è formata e ha lavorato per due anni, assorbendo gli insegnamenti di una realtà che negli ultimi quindici anni ha dimostrato l'efficacia di un modello di agricoltura che in realtà nuovo non è – “già nella Parigi dell'Ottocento, per mettere a frutto i piccoli appezzamenti di terreno della fascia periurbana si cercavano soluzioni per incentivare la fertilità del suolo” – ma che è stato “riscoperto” come sistema produttivo efficace circa 30 anni fa, in California, dal gruppo Ecology Action di John Jeavons.
Il metodo biointensivo: piccolo è meglio
Perché è cruciale per questo movimento di giovani orticoltori l’agricoltura biointensiva? Perché parte da una prospettiva diversa rispetto al comune pensare – in cui si ritiene che solo i grandi numeri possono competere – e si fonda sull'assunto che piccolo è meglio. Anche per i risultati economici dell’impresa agricola. Innanzitutto per la possibilità di ridurre l'investimento iniziale, che spesso rischia di spezzare in partenza anche le migliori intenzioni. E così questi giovani contadini sono fondamentalmente orticoltori, coltivano terreni che non superano 1 o 2 ettari di estensione, e lo fanno manualmente, al più con l'aiuto di un motocoltivatore: “Biointensivo è un termine che può trarre in inganno, per questo molti preferiscono parlare di market gardening. Ma il termine intensivo, in questo caso, è lontano dal significato che acquista in agricoltura convenzionale. Qui parliamo di stimolare una vitalità più intensa del terreno” spiega Myrtha, che, al momento, coltiva solo 1.000 metri quadri ruotando una decina di colture: quelle basiche, dall'insalata ai cavoli, ai finocchi, “così da garantire costanza anche ai ristoranti che rifornisco, ma anche perché voglio arrivare sulla tavola quotidiana, nutrire la gente ogni giorno”.
Biointensivo: nella pratica, come si fa?
Lavorando su rotazioni strette, sovesci e compost per incentivare l'attività microbiologica del suolo, in bancali cosiddetti “convenienti”, cioè aiuole permanenti e rialzate che permettono di aumentare la densità produttiva per metro quadro. “Per questo, in inverno, pianifichiamo l'attività di semina e raccolta con grande scrupolo. Il piano colturale è fondamentale per controllare le variabili e limitare gli imprevisti. Ma anche per stimare il giusto prezzo da attribuire ai propri prodotti. Tutto, in una piccola realtà aziendale, dev'essere ottimizzato: spazi, energie, costi. La difficoltà è comprendere bene il proprio mercato di riferimento, specie in un sistema ortofrutticolo come quello italiano dove naturalmente anche il convenzionale sa offrire qualità. Perché dunque un cliente dovrebbe pagare di più per le mie carote? Devo saperlo io, per poterglielo spiegare. Un limite dei giovani orticoltori è che sanno coltivare, ma spesso non sanno vendere. Ma una cosa è certa: la vendita diretta, se c'è qualità, non può costare meno”.
Il giusto prezzo. La qualità si paga
E qui entrano in gioco le competenze pregresse di ciascuno. Chi ritorna alla terra spesso ha studiato agraria o scienze ambientali; altri, però, arrivano da percorsi molto diversi, e mettono a frutto le proprie inclinazioni. Nicola Savio, di Officina Walden (Lessolo, Piemonte) è un veterano di questo movimento (l'azienda esiste dal 2010), prima lavorava nel mondo della ristorazione; oggi è un punto di riferimento per i più giovani, produce i suoi ortaggi su un ettaro di terreno nel Canavese – “dove cerchiamo anche di sperimentare modelli di programmazione da condividere con altri” – ma fa anche divulgazione e formazione, oltre a vendere attrezzi manuali ergonomici per l'orticoltura: “Da qualche anno sta iniziando a strutturarsi una vera professionalità della piccola agricoltura, e questo favorisce anche la nascita di nuove realtà. Ma, passata la breve sbronza del "che bella la natura con le caprette", dobbiamo organizzarci e razionalizzare le competenze. I dati ci dicono che in Francia ogni due giorni si suicida un agricoltore. E allora non ci si improvvisa: bisogna studiare il contesto, calare i modelli sulla propria realtà di riferimento. Si parte sempre dalla fertilità del suolo, che è il nostro capitale fondante. Ma chi arriva oggi può portare il suo contributo: le competenze in ecologia, biochimica, l'innovazione tecnologica. Noi vogliamo fare impresa, non certo lavorare per la sussistenza. Produciamo prodotti di qualità per venderli. Essere piccoli? Aiuta a modulare meglio gli sforzi, a cambiare in corsa. A patto di essere organizzati”.
L'indagine completa sulla microagricoltura e il biointensivo la trovate nel numero di settembre del Gambero Rosso.
a cura di Livia Montagnoli
disegni di Marcello Crescenzi
QUESTO È NULLA...
Nel numero di settembre del Gambero Rosso trovate l'indagine completa con i contributi di Marcello Bianchi (Maso Zepp), Matteo Mazzola (azienda agricola Iside), Federico ed Elisa (Piccola Terra), Yuri Marchionni e Isabella Cocci (Rasoterra), Lorenzo Costa (La Scoscesa), Simone Rocchelli e Luca Verzelloni (Prati al Sole), Caterina Romanelli (L'Orto Felice). E il parere di chi vende i loro ortaggi. Un servizio di 13 pagine che include anche i comandamenti dell’ortolano contemporaneo, un utile glossario dei termini tecnici, un focus sulle Csa (Comunità che supporta l'agricoltura) e le normative vigenti in Italia per orientare i futuri agricoltori. E ancora le testimonianze di chi scommette sull'innovazione tecnologica, tra acquaponica e aeroponica, e una super mappa che visivamente fa il punto di un movimento in piena germogliazione.