Quei bravi ragazzi e i mafia movie
Quando Scorsese dà vita a Quei bravi ragazzi nel ’90, il genere dei mafia-movie è già noto (basti pensare che Il Padrino risale a quasi 20 anni prima). Scorsese, però, riesce ad aggiungere il suo tocco d’autore, con un realismo drammatico, schietto, fin troppo crudo, ma anche uno humour spietato, tra battute ciniche e sarcasmo non poi così sottile. Ma non solo: il protagonista della pellicola, Henry Hill (Ray Liotta), non è altro che un ragazzo, un adolescente scaltro che aspira a prendere il suo posto nella malavita di Brownsville, quartiere malfamato di Brooklyn, sotto la protezione del boss Paul Cicero. Al suo fianco, Jimmy Conway – Robert De Niro – e Tommy DeVito, un Joe Pesci mozzafiato, capace di regalare un’interpretazione sublime di questo personaggio apparentemente calmo ma profondamente instabile, in grado di uccidere senza pietà per ottenere ciò che vuole e farsi strada tra i gangster, furibondo e schizofrenico (interpretazione che gli è valsa il premio Oscar come Miglior Attore Non Protagonista). Non sono i grandi capi, stavolta, a dettare i tempi della storia, ma quei bravi ragazzi, così come si sono continuati a chiamare fino alla fine, bravi perché dediti alla causa, perché lavorano sodo per raggiungere il loro obiettivo. È la voce fuoricampo di Liotta, ironica e malinconica, a definire i confini della trama. Un ragazzo, solamente un ragazzo che vive la sua versione distopica del sogno americano, prendendo il ventenne Jimmy come esempio e impegnandosi giorno dopo giorno per arrivare a essere un vero gangster.
La cena in prigione
“Non tradire gli amici e tieni sempre il becco chiuso”, sono le due lezioni fondamentali che Conway gli trasmette, le due che alla fine, senza un soldo e in preda al panico, tradisce, aderendo al programma protezione testimoni e abbracciando l’FBI. Prima, però, Henry e Conway vengono arrestati durante un colpo a Miami, e il loro tempo in quel non luogo che è la prigione dà vita a una delle scene gastronomiche più famose del cinema. “In prigione la cena era una grande occasione”, racconta la voce di Liotta, “c’era sempre un primo di pasta e un secondo di carne o pesce”. Ad affettare l’aglio con una lametta è Paulie, “così sottile che si scioglieva nella padella con pochissimo olio”, e poi c’è la salsa di pomodoro preparata da Vinnie con tre varietà di carne, “vitello, manzo e maiale” ma di quest’ultima ne basta pochissima. Tre cipolle piccole, due barattoli di pomodoro da un chilo e il gioco è fatto. Alla carne pensa Johnny, che affumica tutta la prigione: “Quando si pensa alla prigione vengono in mente quei vecchi film dove si vedeva tutta quella gente agitarsi dietro le sbarre, ma non era così per noi bravi ragazzi”. I secondini stanno dalla loro parte, in cucina arrivano salame, lombo, formaggio, Scotch, vino bianco e rosso e ancora pane. Sulle note di “Beyond the Sea”, Scorsese tratteggia una tipica cena in famiglia all’italiana, che fa quasi dimenticare lo sfondo del carcere.
Il sugo di mamma Scorsese e la storia del ragù
Un altro film gangster, un altro sugo famoso, come quello di Clemenza ne “Il Padrino”. Stavolta la ricetta non è inventata ma ispirata a quella della madre del regista, Catherine Scorsese (al secolo Cappa), figlia di emigrati siciliani e cuoca appassionata. La preparazione è presente anche nei titoli di coda del documentario Italoamericani del ’74, diretto sempre da Scorsese, in cui la famiglia parla della sua esperienza di immigrati a New York, mentre cena nel suo appartamento e Catherine insegna a cucinare le polpette. Quello del film è un ragù più simile a quello napoletano, con pezzi di carne intera, ma si tratta di un’interpretazione personale: in qualsiasi caso, il primo a nominare il ragù in Italia è Vincenzo Corrado ne “Il cuoco galante” del 1773, dove riporta la ricetta del timballo di maccheroni in crosta. Al tempo, però, non si trattava di un condimento per la pasta ma di una pietanza a sé, che prevedeva una prima rosolatura nel burro o nell’olio, e poi la cottura in brodo con ortaggi ed erbe aromatiche. Ad aggiungere il sugo di pomodoro è stato poi Francesco Leonari, autore de “L’Apicio moderno” (1790), mentre l’uso del ragù per condire la pastasciutta arriva qualche anno dopo nel ricettario “La cucina casereccia” stampato a Napoli da un autore anonimo che si firma con le sole iniziali M.F.
La ricetta per il sugo di Quei bravi ragazzi
Stavolta una ricetta certa c’è, per questo abbiamo recuperato dai titoli di coda del documentario ingredienti e procedimento della mamma di Scorsese, per realizzare una riproduzione fedele della cena in prigione.
Ingredienti per 4 persone
- 1 cipolla grande
- 2 cucchiai di olio extravergine di oliva
- 2 barattoli di pomodori pelati
- 2 tazze d’acqua
- 3 spicchi d’aglio
- 5 cucchiai di basilico tritato
- Sale
- Pepe
- Zucchero
- 180 g di carne di vitello
- 180 g di carne di manzo
- 180 g di carne di maiale
Procedimento
Tritare la cipolla e l’aglio e far soffriggere in una padella con l’olio. Aggiungere i pezzi di carne e il basilico. Quando la carne si imbrunisce, togliere dal fuoco e lasciare su un piatto. Unire in padella il pomodoro e l’acqua e lasciar sobbollire. Aggiungere sale, pepe e un pizzico di zucchero e lasciar cuocere a fiamma bassa. Aggiungere di nuovo la carne in padella e cuocere per un’ora.
a cura di Michela Becchi
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