Cibi feticcio e deliziose "schifezze": confessioni anti gourmet della redazione del Gambero Rosso

24 Lug 2024, 08:12 | a cura di
Ci siamo messi a nudo e abbiamo elencato (quasi) tutti i nostri guilty pleasure in fatto di cibo. Ora, però, tocca a voi

Nessuno immune al fascino dei cibi industriali. O di quelli fritti, unti e bisunti, dei sapori di una volta, quelli dell'infanzia, che oggi non sembrano più così buoni però ci riportano indietro nel tempo. Di certo non lo siamo noi della redazione, che abbiamo deciso di metterci in gioco e confessare i nostri oscuri segreti in cucina. Per ricordarci che, per quanto il cibo sia importante, ancor più fondamentale è non prendersi troppo sul serio. Almeno a tavola.

Confessioni anti gourmet della redazione del Gambero Rosso

Il comfort della croccantezza

Eleonora Baldwin

Il mio oscuro segreto è l’amore che provo per quello che mio figlio da piccolo chiamava "pizzaio" (non lo correggevo perché mi faceva tenerezza quel suo errore). Lessico familiare, ma anche scudo dietro il quale mi nascondo: l'anonimato di quel nome di fantasia mi salva dal localizzare il luogo di perdizione. Un buco sul viale principale del mio quartiere che fa una pizza al taglio alla quale non so rinunciare. Unta, bassa e zeppa di chissà che cosa, ma così buona! La “bianca”, che dopo qualche ora è già gommosa, crea dipendenza. La "peperoni arrosto" è da urlo; la "fiordilatte coi funghi" idem. E poi c'è la Margherita. Anni fa, operata di tonsille (ero già adulta), i medici mi hanno raccomandato: niente cibi croccanti e acidi, quindi altolà agrumi e pomodoro. Infischiandomene degli ordini, per rifarmi dell'orrore del cibo ospedaliero, appena dimessa sono andata dritta dal pizzaio e ho fatto fuori un ettaro della loro margherita: bordo croccante, mozzarella filante (siluro? forse!) e sugo di pomodoro. Ho avuto dolore alle tonsille per giorni. Ma ne è valsa la pena.

Le latterie dei tempi andati

Mara Nocilla

Ci sono stati anni in cui non esistevano wine bar, pub, cocktail bar, bistrot, gintonerie e altri ritrovi dai nomi stranieri. C’erano le latterie, almeno a Roma. Le potevi trovare al Prenestino, al Pigneto, a Garbatella, come a Monti o all’Esquilino. Ce n’era una anche nel centro storico, in via dei Giubbonari prima di arrivare a Campo de’ Fiori, sulla sinistra, dopo “dar filettaro” e la sede del partito comunista. Ci si andava quando faceva freddo o pioveva, oppure prima di andare a un cinema d’essai. L’offerta era a senso unico: caffè, cappuccino, caffellatte, insomma i classici di caffetteria, nei quali si inzuppavano i cornetti avanzati della colazione, asciutti e “riconcallati” – come si dice a Roma – ma che reggevano l’umido urto dell’inzuppo. Si consumavano ai pochissimi tavoli a disposizione (le latterie erano dei buchetti di pochi metri quadrati) e assicuravano una piccola pausa di materno relax per pochi spicci. Nessuna esperienza gastronomica, solo una sensazione d’altri tempi che tuttora apre il cuore a boomers e agés. Chissà se esistono ancora queste schegge del passato…

Supplì tagliato a metà

Supplì e pizzette da bar, la passione dei romani

Antonella De Santis

Le mie peregrinazioni nel torbido sono limitate, quasi tutte fritte ma più per caso che per convinzione perché in realtà non sono un'appassionata del genere: per me non è affatto vero che «fritta è bona pure 'na sola di scarpa», come si dice a Roma. I supplì sono uno dei miei cibi feticcio, che hanno il grande pregio di essere un tappo perfetto per quando «ho fame, ma forse no», cosa che mi capita di frequente. Ma non li metterei tra i vizi privati come faccio invece per l'abbinata patatine fritte rigorosamente industriali e birra gelata ugualmente industriale. Il resto si muove tra qualche raro cedimento ai Sofficini, ogni volta però assai deludente (che non sia in capace di prepararli?) e le pizzette da bar, quelle del diametro di una pallina da tennis, unte e bruciacchiate. Le chiamo affettuosamente pizzette fetide, e sono la mia passione. Condivisa.

Un amore oltre l’allergia

Antonella Dilorenzo

Si dice che più una cosa sia vietata, e più venga desiderata. L’allergia al nichel mi porta a non osare con il cioccolato, eppure quando nessuno mi vede – nemmeno la mia coscienza – faccio incetta al supermercato di tutto il cioccolato possibile. Stato liquido, solito, cremoso che sia. Senza badare a coloranti, additivi, emulsionanti. Nulla. L’etichetta sparisce insieme all’allergia al nichel. E quei venti grammi di cioccolato fondente che i nutrizionisti ammettono come guilty pleasure in qualsiasi dieta, io li traduco in tutto: dessert proteici, classiche tavolette, mini gelati, snack, biscotti, creme spalmabili, polveri per budini. E se non consumo tutto questo, basta che del cioccolato sia in dispensa, dentro casa, per darmi l’illusione di avere un paracadute consolatorio in ogni momento.

Nostalgia anni Novanta

Michela Becchi

Nominate un cibo anti gourmet e risponderò all’appello. Cioccolato bianco? Sì, grazie, possibilmente quello di un noto marchio dalla confezione gialla e blu. Pizzette «fetide»? Mia grande passione (diffidate da chi preferisce quelle perfettine di sfoglia). Ma che dire del cibo delle feste di compleanno? Quelle dei bambini, alla sala della parrocchia, con le torte classiche – le migliori! – e paninetti imbottiti con salumi industriali (e pensare che ora sono vegetariana…), tanta Nutella, le bandierine colorate infilzate sopra. Tramezzini, valanghe di patatine su tovaglie di carta colorata, le carte della pasticceria di fiducia impilate nel secchio. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate e io non posso fare a meno di chiedermi quanto a un bimbo di due anni importi che le pizzette siano fatte con farine macinate a pietra. Continuerò a preferire i panini all’olio dei supermercati anni Novanta ai croissant salati, ma se non siete d’accordo… come faceva quella canzone? It’s my party and I’ll eat panini if I want to. No, forse no.

Pasta da studenti e sapori d’infanzia

Annalisa Zordan

Pasta panna, tonno e grana. Ok, l'ho scritto. È il cordone ombelicale che mi lega alla “Annalisa bambina” (mia mamma la faceva spesso e continua a farla) e “universitaria”, quella che per un certo periodo ha convissuto felicemente con altre cinque o sei persone, forse pure di più, e un topo in una casetta indipendente a Padova. Un piatto che - udite udite - continua a piacermi e che ostinatamente cerco di rivalutare auto convincendomi con l'ipotesi che possa forse richiamare il tradizionale baccalà alla vicentina (altro piatto che mia mamma fa spesso, riscuotendo gran successo). E a proposito di latte e derivati, c'è un altro cibo feticcio di cui per un periodo sono stata dipendente: il latte condensato, quello in tubetto di una determinata marca che a casa mia era bandita (questa è un'altra storia). Lo compravo, di nascosto, e me lo spremevo direttamente in bocca promettendo a me stessa che quella sarebbe stata l'ultima “spremitura”. Dopo pochi minuti, ripetevo il gesto, finché non vedevo il tubetto arrotolato fino all'osso su stesso.

Perversione senza latte

Loredana Sottile

Ebbene sì, lo confesso. A me il gelato piace alla vecchia maniera: acquoso. Per fortuna oggi gli intolleranti al lattosio (io lo sono solo quando si tratta di gelati) mi hanno dato la possibilità di ripiegare sui gusti senza latte, anche se poi la panna sopra la faccio mettere lo stesso e lì puntualmente il gelatiere di turno me lo fa pesare. A ogni modo, per ritrovare quel gusto dell’infanzia perduto - quando «il carretto passava e quell’uomo gridava gelati» - mi piace andare nei “peggiori bar-gelaterie” di quartiere, quelli che a Roma chiamano “zozzoni”. Se con il gelato in qualche modo riesco a cavarmela, l’impresa più ardua è ritrovare il cono “giusto”. Il modello, per me inarrivabile, è il cono sud (in Sicilia era l’unico sul mercato tra gli anni ’80 e ’90): una cialda che si scioglieva al contatto con la panna (che era rigorosamente doppia: sopra e sotto), disintegrandosi non appena arrivava in bocca. Purtroppo, ahimè, ormai l’unico cono ammesso in società è quello biscotto, che vanifica ogni tentativo di mangiare il gelato per non appesantirsi e che di sciogliersi in bocca non ne vuole sapere neanche sotto tortura. Se, però, qualche volta, mi imbatto in quel ricordo d’infanzia, allora faccio scorta per le settimane a venire. Non sarà gourmet, non sarà instagrammabile, ma è il mio inconfessabile inno alla leggerezza.

Tortellini ad agosto e altre stregonerie

Sonia Ricci

I tortellini bollenti del supermercato, il paccone a pochi euro al kg del banco frigo, immersi in un brodo rigorosamente fatto col dado a base di glutammato (anche se ormai in commercio si trovano anche versioni che non ce l'hanno), è uno dei migliori confort food che esistano. Almeno per me. Se sei abbastanza triste puoi aggiungerci un formaggino spalmabile e la goduria raddoppia. È un piatto che richiede pochi minuti di preparazione, zero sforzi, nessuna riflessione. Con mia sorella Celeste, all'università, con pochi soldi in tasca, lo preparavamo tutte le domeniche sera dopo essere rientrare a Roma dall'Umbria. Un rito che non badava al gusto ma al piacere consolante di un cibo ciccioso e caldo. Mettevi l'acqua sul fuoco, buttavi il dado, al bollore fiondavamo i tortellini giganti, con la pasta spessa che ti si conficcava tra i denti, ed era pronto. Non dovevi fare granché, aspettare, chiacchierare mentre mettevi i piatti "cubi" a tavola (in diverse parti dell'Umbria i piatti "fondi" vengono chiamati così) e poi mangiare. Il ripieno: non pervenuto. Lo facevamo pure ad agosto, anzi lo faccio ancora ad agosto, sempre quando il livello di tristezza è alto e serve un antidoto.

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