La Fao e la rinascita dell'agricoltura nei Paesi in crisi
“Pensate che l'agricoltura non possa produrre cibo in situazioni di crisi umanitaria? Ripensateci”. Così la Fao introduce la necessità di aiutare le comunità rurali che lottano per sopravvivere in territori piegati da guerre e disastri ambientali. Un'affermazione tagliente, ma motivata da un lavoro di assistenza (in campo e fuori) che l'organizzazione internazionale presta incessantemente: nel 2018, dicono i dati, la Fao ha portato il suo aiuto a circa 25 milioni di persone che vivono di agricoltura in 70 Paesi. Come? Procurando semi da piantare, fertilizzanti e vaccini per gli animali, realizzando sistemi di irrigazione e ricostruendo ecosistemi e reti commerciali in aree dove resilienza non è una parola vuota da sfoggiare perché fa tendenza. E quindi soprattutto insegnando agli agricoltori locali a rialzarsi camminando sulle proprie gambe, ottimizzando sforzi e risorse, facendo squadra, rigenerando l'ambiente.
Le donne siriane che sfamano i villaggi
In Siria quest'impegno si esplica anche a supporto delle donne che hanno preso in mano il lavoro agricolo da quando è scoppiato il conflitto interminabile che infesta il Paese: spesso sono loro l'unica fonte di reddito per la famiglia, e hanno dovuto rimboccarsi le maniche, pur non sapendo molto di come si lavora nei campi, né padroneggiando le regole del commercio. A loro è rivolto il programma di formazione che vede collaborare Fao e Slow Food nel rilancio del settore agricolo siriano e che in questi giorni atterra in Italia.
Il viaggio-studio in Italia
In Piemonte e Liguria, sette agricoltrici siriane si stanno muovendo alla scoperta di comunità agricole che promuovono specialità locali e tradizioni gastronomiche del territorio, per un viaggio-studio che mira a sviluppare le competenze delle piccole produttrici alimentari siriane. Attraverso la conoscenza diretta di chi ce l'ha fatta. Per esempio imparando che si può lavorare con strumenti ben più efficaci degli attrezzi rudimentali che hanno sempre visto in casa, aumentando la qualità dei prodotti, e di conseguenza il loro valore sul mercato.
7 produttrici che vogliono farcela
Afaf Jafaar, madre di cinque figli, coltiva ed essicca fichi secchi, naturali e alimentati da acque piovane; Aicha Dalati, invece, è un'apicoltrice di Aleppo: fuggita dalla città, ha ricominciato da zero in un villaggio poco distante. Ma per difficoltà logistiche e impossibilità di appoggiarsi a una rete commerciale adeguata, riesce a vendere il suo miele solo localmente, ricavandone scarsi profitti. Poi ci sono Wedad Atmarzia, che produce formaggi di capra, e Dima Jedeed, 34 anni, che a Lattakia produce succhi di frutta, per mantenere i suoi bambini; e Adla Hasan, produttrice di olive e olio da più di 20 anni a Tartous. Tutte sono accomunate dalla voglia di riscattarsi: possiedono piccoli appezzamenti di terreno dislocati nei governatorati di Homs, Hama, Lattakia, Tartous, Aleppo, Sweida e Al Qunatra, e ognuna si è specializzata nella produzione di prodotti locali, dai sottaceti al concentrato di pomodoro, al miele.
Tra caseifici e uliveti
Ad accoglierle in Italia sono gli agricoltori di sei Presidi Slow Food: burro dell’alta valle dell’Elvo, olio extravergine d’oliva ligure, miele di alta montagna, Robiola di Roccaverano, agnello Sambucano e aglio di Vessalico. Si parla di produzione, commercializzazione e catena di valore degli alimenti. Si visitano le aziende, si condividono le storie. Al ritorno in Siria, ognuna di loro trasmetterà al villaggio le conoscenze acquisite, innescando un circuito virtuoso. Raccontando della visita al caseificio di Amaltea, dove si produce Robiola di Roccaverano; o della passeggiata tra gli ulivi dell'azienda La Baita, dove Marco Ferreri produce extravergine da olive taggiasche. Nel borgo di Sambuco (CN), invece, si è tenuto l'incontro con Marta Fossati, produttrice di formaggi e yogurt di capra. E così andando, verso un futuro più felice.
a cura di Livia Montagnoli
foto di Alessandra Benedetti