Il caso del pandoro Balocco griffato da Chiara Ferragni squaderna un problema taciuto a lungo, soprattutto nel settore dell'enogastronomia: le attività dei food influencer e della pubblicità che quotidianamente riversano sui social senza dichiararla apertamente. L'Agcom ha imposto nuove regole obbligando gli influencer a rendere esplicito il contenuto pubblicitario e commerciale quando si tratta si sponsorizzazioni. «Nel cibo tutti i problemi» che finora hanno riguardato i social «sono presenti all’ennesima potenza», dice al Gambero Rosso il giornalista Stefano Feltri, già direttore del quotidiano Domani e vicedirettore del Fatto Quotidiano, che da tempo segue da vicino l'argomento e, nel 2022, ha pubblicato per Einaudi il libro Il partito degli influencer. Perché il potere dei social network è una sfida alla democrazia.
Stefano Feltri, l’Agcom ha comunicato le nuove linee guida per gli influencer, limitandole però agli account con oltre un milione di follower, anche se nelle grazie della comunicazione aziendale da un po’ di tempo ci sono i cosiddetti micro influencer…
Io trovo positivo che ci sia un tentativo di introdurre regole ulteriori in un settore che finora ne ha avute molto poche. È un bene che ci sia l’esigenza di rendere più esplicite le attività di marketing rispetto a quelle di contenuto. È anche giusto che le regole siano più stringenti prima per gli influencer grandi e poi per quelli piccoli, è un po’ come la supervisione bancaria, che è più stringente per le grandi banche che per quelle piccole.
Un commento sulle disposizioni: basteranno?
Non è realistico pensare che si facciano delle regole che possano cambiare da un giorno all’altro i comportamenti. Lo scopo di avere delle best practice è di creare le condizioni per distinguere i comportamenti corretti da quelli scorretti. Faccio l’esempio del caso Ferragni: se ci fosse stato un codice etico – un’altra delle proposte di Agcom – che stabilisce che le operazioni di beneficenza non possono essere mischiate con quelle commerciali, allora anche l’utente avrebbe avuto un criterio per dire "questa cosa non va bene". Lo scopo non è essere tassativamente vincolanti, ma creare le condizioni per riconoscere i comportamenti virtuosi dagli altri.
Il presidente dell'Agcom ha specificato che queste novità non sono state elaborate sull'onda del caso Ferragni, ma che si stava lavorando al regolamento da oltre un anno. Eppure questa tempestività non sembra casuale.
Questo non mi indignerebbe, è una cosa tatticamente comprensibile. È chiaro che se c’era una riflessione in corso magari è stata accelerata da un momento in cui c’è, oggettivamente per la prima volta, un grande consenso per regolamentare il settore, mentre in altri tempi sarebbe apparso pretestuoso. Quando due anni fa ho scritto il libro sugli influencer molti mi hanno chiesto come mai sollevassi questi problemi. È solo quando c’è un caso, un grosso scandalo, che si possono far passare le regole.
Quando era direttore del quotidiano Domani, circa un anno fa, Selvaggia Lucarelli mise in luce per prima le fumosità dell’accordo firmato da Chiara Ferragni e Balocco. Come andò la vicenda?
Quel caso è importante per due ragioni: primo perché il lavoro giornalistico è arrivato un anno prima di quello amministrativo e sanzionatorio. E poi perché quel lavoro smonta tutta la successiva ricostruzione e le scuse di Chiara Ferragni. La sanzione dell’Antitrust ha rilanciato una storia che, al netto delle comunicazioni interne, noi avevamo già raccontato per intero. Il merito è di Selvaggia Lucarelli che da un po’ di tempo aveva iniziato a occuparsi di queste singolari raccolte fondi di beneficenza online, dove si sfrutta la generosità delle persone ma non è sempre chiaro l’obiettivo.
Nella sua newsletter, Appunti, qualche giorno fa ha scritto: “La prima fase dell’economia degli influencer è finita”. A cosa si riferisce?
Tutta la prima fase - succede sempre con le nuove tecnologie - si fonda su una mancanza di consapevolezza degli utenti, c’è un aspetto quasi magico. E in questi primi anni gli influencer hanno costruito il loro successo su un’illusione di autenticità: le persone avevano l’impressione di stare dentro la vita dei Ferragnez, di seguire Kim Kardashian (non a caso la sua proiezione social era accompagnata da un reality show). C’era questa illusione: l’influencer è uno di noi, crea empatia basata sul fatto che è una persona normale o famosa che ci permette di seguirlo, di entrare nella sua vita, di vederne tutti gli aspetti.
E ora?
Adesso questa cosa è svanita, si è capito che non è così, che si tratta di contenuti di intrattenimento che seguono regole e logiche proprie e che è tutto sostanzialmente finto. A contribuire a questo disvelamento è persino lo stesso Fedez che si lamenta perché i giornalisti di Canale 5 stavano sotto al suo palazzo, lui che sui social ha condiviso con la moglie persino l’ecografia del proprio figlio.
Quindi tutto questo è finito?
Chi aveva da offrire soltanto un'illusione di autenticità si sgonfia, come Chiara Ferragni. Chi invece ha usato i social come piattaforma di distribuzione di prodotti, come l’Estetista Cinica (l'influencer Cristina Fogazzi), finisce la prima fase, smette di essere influencer e si trasforma in una vera e propria azienda, con un tentativo di fare un salto manageriale importante, diventa un brand che usa i social.
Nel suo libro scrive: “Il presupposto del nostro interesse per i contenuti che troviamo su Facebook, Instagram o Twitter è una certa dose di autenticità: nessuno passerebbe la giornata a guardare inserzioni pubblicitarie palesi o occulte”. La previsione quindi è che con l’esplicitazione dei contenuti pubblicitari richiesti da Agcom questo mondo conoscerà un declino?
Sono sempre stato un po’ scettico sul fatto che le regole siano il fattore che cambia davvero le cose. Le regole disegnano un quadro all’interno del quale ci sono gli influencer e il loro pubblico. È il pubblico che decide se sanzionare o no chi non rispetta le regole o chi si comporta male, non è l’autorità e basta.
E cosa può cambiare?
Che ci siano influencer che si fanno una cattiva reputazione, com’è successo adesso alla Ferragni, e altri che invece mantengono una reputazione più solida. Chi si fa una cattiva reputazione avrà dei danni, perderà follower ma soprattutto perderà fatturato e credibilità, non sarà più credibile come partner per altri brand, come è ora per Chiara Ferragni. La sanzione vera è quella reputazionale, non è quella amministrativa: Ferragni il danno grosso non l’ha avuto dalla multa dell’Antitrust, l’ha avuto dal fatto che Coca Cola non vuole più usare i video già registrati o che altri brand non vogliano più collaborare con lei.
Molto sfaccettato è il settore dei food influencer: all’apice c’è chi produce ricette, come Benedetta Rossi con i suoi 16 milioni di follower. Poi chi si occupa di nutrizione, di vino, chi visita ristoranti su invito o senza, chi semplicemente mangia davanti allo smartphone. Ha avuto modo di osservare questo mondo?
Nel cibo tutti i problemi che abbiamo declinato fin qui sono presenti all’ennesima potenza, perché il cibo o è trattato come un prodotto - ma non è particolarmente interessante, lo comunichi in maniera tradizionale come con gli spot televisivi - oppure nella sua accezione più raffinata e contemporanea è un’esperienza. È lì che si riscontra l’ambiguità del modello degli influencer, che si fonda sull’autentico senza esserlo. Come fa soldi un food influencer? Se fa i soldi solamente vendendo la sua reputazione, come fai a credere a quello che ti comunica? Quest’aspetto è particolarmente rilevante per gli influencer del cibo, più che per la sfera della moda o degli oggetti: uno può indossare vestiti che promuove mentre fa altre attività, è in viaggio o è a casa coi figli nel quotidiano. Sul cibo, se uno mangia o cucina fa solo quello: non è che sta al ristorante e intanto fa altro. E lì si vede l’ambiguità del modello, perché un influencer che non è credibile, che esagera nell’introdurre una dimensione commerciale nel suo contenuto, può distruggere la propria figura e produrre un contenuto irrilevante, oppure in alcuni casi - che ci sono stati e sono preoccupanti - può anche fare danni, produrre messaggi pericolosi dal punto di vista sanitario.
Parla di Tik Tok?
Su TikTok sono tornate delle cose che si vedevano agli albori di YouTube, tipo i video dei bambini che mangiano troppo, o eccessi del genere. Ecco su Tik Tok c’è una spettacolarizzazione degli aspetti più estremi che cancella anni di acquisizione di consapevolezza nella comunicazione intorno al cibo.
La comunicazione dell’Agcom è stata accolta dai giornali in maniera diffusa e in toni entusiastici, ma il giornalismo sull'argomento non ha le sue colpe?
Il tema è da dividere in due parti. Sicuramente i giornali non hanno mai capito bene gli influencer e li trattano come gli idoli dei giovani. Mentre oggi sono tutt’altra cosa, sono i protagonisti del nostro immaginario, come lo sono stati in altre epoche le voci della radio o i volti della televisione: adesso lo sono gli influencer, rappresentano l’immaginario di massa, molto più che Rai 1. Dall’altra parte i giornalisti hanno i loro scheletri nell’armadio: avendo i giornali perso la pubblicità, intesa come inserzioni, perché è migrata online e sui social, e avendo perso in gran parte delle edicole, vendono solo con gli abbonamenti o facendo sostanzialmente come gli influencer, vendendo la propria reputazione. Tutta la convegnistica organizzata dai giornali serve essenzialmente a fare quello che fanno gli influencer, cioè a mettere della comunicazione aziendale, pubblicitaria, istituzionale, di posizionamento all’interno di un contesto di contenuto. Non c’è una grande differenza, se non che gli influencer lo fanno in maniera più efficace, ma il problema è lo stesso.