Soia in Italia
L'Italia è il Paese leader in Europa per produzione di soia non Ogm. Solo nel 2018 il nostro paese ha immesso sul mercato il 47% del totale, circa 1,13 milioni di tonnellate. Il registro sementi nazionale ne conta 140 varietà, coltivate su 326mila ettari. Clima e suolo contribuiscono a rese eccellenti che si attestano su una media produttiva di circa 3.4 tonnellate per ettaro. E il giro di affari non è da poco, le stime si attestano infatti sui quasi 400 milioni di euro.
Eppure questo settore apparentemente fiorente è adombrato da un dato allarmante: il 30% dei semi non è certificato.
Come si certifica un seme
Dagli anni '70 esiste in Italia un sistema di tracciabilità di tutta la filiera nel settore sementiero. Il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria (Crea) ne è l'ente certificatore. E il percorso di certificazione è tanto lungo quanto affidabile. Nel caso specifico dura all'incirca 4 anni, periodo in cui la pianta viene monitorata quotidianamente nei campi catalogo finché non si ottiene l'assoluta stabilità varietale che le consente di essere diffusa.
Gli usi della soia: il comparto zootecnico
Contrariamente a quanto si pensi, la soia prodotta è solo in minima parte destinata al consumo umano, il 90% infatti “nutre” il comparto zootecnico. In parole povere diventa mangime. La soia sopperisce al fabbisogno proteico degli animali d'allevamento (per il fabbisogno energetico si usa prevalentemente mais). Ed è proprio da questi allevamenti che si ottengono alcuni dei prodotti simbolo di eccellenza del made in Italy in tutto il mondo, come salumi, prosciutti e formaggi. Oltre naturalmente alla carne.
Il dato curioso che emerge, quindi, è che in realtà sono i “carnivori” a consumare la maggior parte della soia, mentre coloro che seguono regimi alimentari veg ne sfruttano solo il 10%, in forma di tofu, surrogati della carne, latte, oli.
L'importanza della certificazione
Ma perché il seme certificato è così importante? In primo luogo perché in Italia non è consentito l'impiego di Ogm, e la certificazione garantisce l'assenza di modifiche genetiche. Inoltre offre certezza sull'origine, l'identità specifica e varietale, la germinabilità a norma di legge e l'assenza di semi di erbe infestanti (che limita l'impiego di diserbanti).
Sul totale dei costi produttivi, la certificazione ufficiale del seme influisce solo del 2%. Il costo del seme stesso, per fare un paragone, incide al 9%, la raccolta e il trasporto al 15%, mentre la preparazione del terreno al 23%.
Benché sia difficile individuare la provenienza dei semi non certificati, è ipotizzabile individuare la causa in una pratica di auto produzione, più che nel contrabbando o in mercati neri esteri. Attività paradossale (e illegale), soprattutto alla luce dei dati diffusi da Assosementi. In poche parole, per risparmiare sul 2% del costo di produzione si mette a repentaglio un settore con un giro di affari da 400 milioni di euro.
a cura di Saverio De Luca