Sempre più boom per gli orti urbani a New York. Una storia iniziata 45 anni fa

20 Ago 2017, 08:30 | a cura di

Zone completamente spopolate, aree sgombre e oasi verdi abbandonate: è il ritratto di una metropoli della fine degli anni ’70, una New York in piena crisi di disoccupazione, dove gruppi di ambientalisti hanno trovato un rimedio alternativo creando degli orti domestici affidati ai cittadini. Oggi, i community gardens sono una realtà ben consolidata e organizzata da associazioni di categorie e realtà indipendenti.


Le origini

Recuperare gli spazi verdi della città creando orti comunitari gestiti dai diversi vicinati. Un’idea che oggi sta prendendo sempre più piede ma che, negli anni ’70, in una città in piena crisi come New York, non era poi così scontata. È proprio in questa condizione di ristagno economico e sociale che nella Grande Mela nascono i primi community gardens, orti aperti a tutti e gestiti dagli abitanti dei vari quartieri, dove persone di ogni nazionalità e cultura lavorano insieme  per produrre frutta, verdura e altre specialità locali. Tutto ha inizio nel 1972 con le Seed Bombs (letteralmente, bombe di semi) dei Green Guerrillas, gruppo di ambientalisti che inizia a gettare sacchetti di terra e semi oltre le recinzioni per far germogliare l’erba e restituire nuova luce alle tante oasi verdi abbandonate. Inizia così a propagarsi la pratica della bonifica dei terreni, gestita in piena autonomia da gruppi di volontari. Una tendenza che si trasforma in poco tempo, verso la fine degli anni ’70, nel fenomeno dei community gardens, orti comunitari dove chiunque può coltivare per il consumo proprio o per la vendita.

I community gardens

 

Dei rifugi per immigrati e appassionati agricoltori che non possono permettersi un appezzamento di terra, nati dapprima nella zona di Alphabet City, nell’East Village, e diffusisi poi nel resto della metropoli. Si tratta di proprietà pubbliche a tutti gli effetti, mantenute dai cittadini e organizzate da associazioni locali, prime fra tutte GreenThumb, che conta oggi 553 community gardens affidati a oltre 20mila volontari. Un programma di salvaguardia dell’ambiente, sostegno economico per le famiglie meno abbienti, ma anche e soprattutto di inserimento sociale per i nuovi arrivati, immigrati o meno. “La maggior parte dei membri dei community gardens sono persone straniere che provengono dal mondo contadino”, ha dichiarato il direttore di GreenThumb Bill Lo Sasso. “Entrando a far parte di un community garden”, continua, “si diventa membri integranti di una rete di vicini proveniente da diversi background e culture, che possono aiutare gli ultimi arrivati a integrarsi e stabilirsi al meglio nella comunità”.

Qualche esempio

 

Fra gli orti più grandi di New York, spicca quello del Bronx, nato nel 2012 e sostenuto da Bronx Green-Up, programma pensato per fornire formazione sull’orticoltura e assistenza tecnica ai residenti del Bronx che hanno scelto di diventare agricoltori urbani. “Negli ultimi anni il programma ha lavorato molto con persone dai Caraibi, dall’America Centrale e l’Africa”, ha commentato Ursula Chance, direttrice del Green-Up. L’orto del Bronx, infatti, conta attualmente il più alto tasso di membri stranieri della città. A regolamentare gran parte degli appezzamenti oggi è anche Greenmarket, realtà fondata nel ’76 con un duplice obiettivo: promuovere l’agricoltura regionale,  offrendo alle famiglie l’opportunità di vendere i prodotti da loro coltivati direttamente ai consumatori, e assicurare a tutti i newyorkesi un accesso a materie prime locali sempre fresche. Grazie al lavoro di Greenmarket, oltre 100 community gardens sono andati ad aggiungersi alla lista in crescente aumento degli orti urbani pubblici: “Niente rappresenta meglio la quintessenza di New York come un gruppo di persone da tutto il mondo che lavorano fianco a fianco”, ha affermato il presidente Marcel Van Ooyen.

Un fenomeno che sta iniziando a prendere piede anche in Italia (fra gli ultimi nati, il Parco Cerillo a Bacoli, in provincia di Napoli) e che, se condotto con criterio e impegno, potrà portare un giorno al recupero di aree verdi abbandonate, e soprattutto a una nuova consapevolezza ambientale dei cittadini.

a cura di Michela Becchi

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