Schiavitù dei giorni nostri. I gamberi tropicali e la tratta dei minori in Thailandia

21 Dic 2015, 11:00 | a cura di

In vista delle feste spopolano nei banchi di surgelati, tra offerte imperdibili e dubbia provenienza. Ma l’inchiesta dell’Associated Press rivela il meccanismo perverso che regola la lavorazione dei gamberi in Thailandia, dove la schiavitù è tollerata. Con la complicità dei mercati occidentali. 


Da dove arrivano i gamberi sgusciati?

Non mangiate quel gamberoè il titolo inequivocabile che il Washington Post dedica alla storia di sfruttamento smascherata dai giornalisti dell’Associated Press, che da qualche giorno rimbalza sulla stampa americana rispolverando una piaga che tutti conoscono, ma fanno finta di ignorare in favore delle leggi di mercato (del problema sociale e delle ricadute ambientali di questo business aveva parlato qualche mese fa anche Presa Diretta, in un bel reportage dal Bangladesh e dalla Thailandia a cura di Liza Boschin ed Elena Marzano, all'interno della puntata Salviamo il Mare, poi premiata con una menzione speciale al Prix d'Italia 2015). I gamberi in questione sono quelli, spesso venduti già sgusciati, in arrivo dalle aree tropicali del Sud Est asiatico, che proprio in occasione delle feste arriveranno sulle tavole di molti italiani, e un giro tra i banchi dei grandi supermercati a pochi giorni dal cenone della Vigilia non fa che confermare questa tradizione. Ma concentriamoci su ciò che succede impunemente dall’altra parte del globo: il settore della pesca e lavorazione dei gamberetti rappresenta una voce importante dell’industria alimentare thailandese, dove in barba alle promesse del governo e delle imprese locali, continua una moderna tratta degli schiavi – per di più minori (sono 10mila i ragazzi tra i 13 e i 15 anni che lavorano in una delle principali città dell’industria dei gamberi) – da Birmania, Laos e Cambogia. Una forza lavoro senza identità (qui sono tutti numeri) costretta a turni massacranti, 16 ore (la sveglia è alle 2 di mattina) con le mani nell’acqua in precarie condizioni igieniche, pur di assicurare il carico di prodotto esportato negli Stati Uniti e in tanti Paesi d’Europa, Italia compresa (anzi, le stime di qualche tempo fa vedevano l’Italia terzo consumatore europeo di gamberi tropicali, dopo Francia e Spagna), che assicura alla Thailandia un indotto annuo di sette miliardi di dollari. A cui è difficile rinunciare.

La complicità dei mercati occidentali

E anche l’abitudine degli acquirenti occidentali, nonostante una violazione dei diritti umani denunciata a più riprese, è dura a morire. Così negli Stati Uniti catene celebri come Wal Mart, Petco, Whole Foods e alcuni grandi brand della ristorazione continuano a vendere gamberi in arrivo dalle aziende responsabili di questo traffico disumano, come la Gig, stanziata nell’area portuale di Samut Sakhon, non molto distante dalla moderna Bangkok, dove i reporter dell’Associated Press hanno filmato per cinque giorni il lavoro di questi schiavi dei giorni nostri, sottoposti a continui maltrattamenti con la complicità della polizia e delle autorità locali. Dopo lo scandalo l’azienda ha chiuso i battenti, limitandosi a trasferire l’attività in un’altra sede: stessa proprietà, nuovo nome e lo sfruttamento può ricominciare.

Mentre non sono ancora noti i nomi delle catene europee che si rendono complici di questo sistema, continuando a importare gamberi tropicali ignare (o incuranti?) del problema. Quel che è certo è che il prezzo accattivante (frutto di una manodopera a bassissimo costo, solo 4 dollari al giorno!) dei gamberi sgusciati in arrivo dalla Thailandia continua a far gola tanto agli importatori che ai consumatori finali, spesso non al corrente della situazione. E allora, mai come in questo caso, sarebbe importante puntare a una spesa consapevole, per smettere di finanziare un’altra forma (purtroppo non l’unica) di schiavitù contemporanea. 

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