Sangue e tuorli: l'ultima cena degli eroi che sbarcarono in Normandia nel D-Day

7 Giu 2024, 09:37 | a cura di
Il 5 giugno tutti capirono. Entro poche ore si sarebbero imbarcati, e fu chiaro dall’odore che si diffondeva dalla mensa: quella sera non venne servita la solita sbobba, ma bistecche e uova, l'ultimo pasto chissà per quanto. In battaglia si dovevano accontentare delle razioni K, cioccolato, sigarette e carne in scatola

«Kenneth Blaine Smith è qui. Quel giorno, sotto il fuoco dell'artiglieria pesante, azionò un telemetro e un radar sulla prima nave americana ad arrivare sulla costa della Normandia, fornendo supporto diretto con l’artiglieria ai Rangers che scalavano le scogliere di Pointe du Hoc nella loro audace missione di eliminare le batteria tedesche». Kenneth Blaine Smith ha annuito, gli occhi lucidi, mentre il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ricordava lui, proprio lui tra gli oltre 150mila soldati che il 6 giugno del 1944 sbarcarono in Normandia per liberare l’Europa dal terrore di Adolf Hitler. E mentre Biden ricordava lui, durante la cerimonia degli 80 anni del D-Day, c’è da scommettere che Kenneth riandava a quelle ore, a quei giorni. Era da almeno due settimane che aspettava sulle coste della Gran Bretagna il momento di partire. Lunghi giorni passati tra esercitazioni e noia, le ore tutte uguali, scrutando il mare per bucare l’orizzonte, vedere la Francia inaccessibile eppure così vicina. Da inizio giugno si erano sparse voci. A mensa tutti ne parlavano, il rancio nelle gamelle, la sigaretta in un angolo della bocca, il cucchiaio nell’altro. Giorni di falsi allarmi, di compagni convinti “stasera si parte”, e poi non si partiva mai.
Fino al 5 giugno. Il 5 giugno tutti capirono. Il segnale che entro poche ore si sarebbero dovuti imbarcare, che molte di quelle vite erano destinate a finire su una battigia o sulla sabbia, fu chiaro dall’odore che si diffondeva dalla mensa.

L'ultima cena prima del D-Day

Bistecche, sangue che colava, profumo di carne vera, bistecche alte anche due dita. E uova, una montagna di uova a sfrigolare, a scivolare viscide e gustose accanto all’osso, tuorli spezzati che si mescolavano al sangue. Ancora prima di arrivare al tendone della mensa, tutti capirono che quella poteva essere la loro ultima cena. E mangiarono. Mangiarono tutto quello che c’era da mangiare, bistecche e uova, uova e bistecche, sui tavolacci di legno o appoggiati a una cassa di munizioni, con le gambe incrociate sul ciglio della strada o con l’elmetto poggiato sul cruscotto di una jeep, sul sedile di un passeggero. Tutti lo sapevano.

Sapevano che prima dell’azione, prima dello sbarco, prima della furia e della mattanza, la Marina forniva un pasto coi fiocchi al posto della solita, orrenda, zuppa. E che quel pasto era nella maggior parte dei casi lo stesso: uova e bistecche. Le voci dei commilitoni che combattevano nel Pacifico erano note, tutti aspettavano il tuorlo e il sangue come il segno che il dado era stato tratto, che Ike, come affettuosamente chiamavano il gran comandante in capo Dwight Eisenhower, aveva deciso. Gli albumi scivolosi planavano sulla carne callosa come di lì a qualche ora sarebbero dovuti planare gli alianti in Normandia, si facevano strada nel piatto come si sarebbero dovuti aprire una via gli uomini sbarcati su Omaha, Utah, Juno, Sword e Gold, nomignoli di battaglia delle anonime spiagge del Calvados che avrebbero guadagnato fama e gloria imperitura per le imprese che Kenneth Blaine Smith e i suoi compagni avrebbero realizzato all’alba del giorno dopo.

Whisky e buon cibo a volontà

Chissà se Kenneth in quei momenti avrà pensato “diavolo degli inglesi”, quando i sudditi di Sua Maestà tirarono fuori whisky a volontà mettendoci del loro, bagnando le cene e la notte di 156mila uomini. Un pasto all’altezza della dieta di Winston Churcill (abbiamo raccontato la folle alimentazione del primo ministro britannico qui), un pasto che finì in poltiglia sul pavimento d’acciaio dei mezzi da sbarco. Sì, perché la cena luculliana veniva servita anche perché Ike non sapeva per quanto tempo dopo quell’ultima cena i suoi uomini avrebbero potuto avere un altro pasto come si deve. Ma soprattutto perché il buon cibo faceva bene al morale, dopo settimane e mesi della solita sbobba.

Tutti vomitarono

Era un rischio calcolato. La notte tra il 5 e il 6 giugno il tempo era migliorato, si era aperta una finestra di possibilità: tre giorni e poi le nuvole si sarebbero riabbassate, tre giorni per decidere l’inizio della fine del terrore. Ma il mare rimaneva mosso, i mezzi anfibi sbatacchiavano e ondeggiavano. Tutti vomitavano, per liberarsi di un peso o per torcersi ancor di più le budella già strette dal terrore. «Ci hanno dato dei sacchetti di carta in cui vomitare e gettare in mare. Avevamo il mal di mare, eravamo bagnati fradici, vomitavamo, tutti vomitavano», ha raccontato Chuck Thomas, ricordando gli istanti infiniti prima che il portellone si spalancasse su Omaha Beach, inghiottendolo nell’inferno.
Il cibo è felicità, il cibo è depressione. Il grande fotografo Robert Capa era su uno di quegli anfibi, armato di macchina e rullino.

La battaglia per un mondo normale

«Ben presto le crisi di stomaco distrussero il morale dei soldati - disse quando tutto era ormai compiuto - Ebbi così la sensazione che tutto questo avrebbe contribuito a fare di quel giorno il giorno dei giorni per antonomasia, il vero D-day». Capa raccontò che da come quei ragazzi vomitavano, compostamente, nei sacchetti, chiedendo scusa quando beccavano la scarpa di un compagno, che si rese conto come quella sarebbe stata una battaglia fatta da gente civili, che si batteva perché il mondo fosse normale, per poter continuare a mangiare uova e bistecche, per poter bere whisky parlando delle donne a casa e di politica, per poter continuare a vomitare in sacchetti di carta.
Chissà se Kenneth Blaine Smith vomitò quella notte sul suo cacciatorpediniere, mentre cercava disperatamente di distruggere più nidi di mitragliatrici su Pointe Du Hoc. Trenta metri di scogliera che si stagliavano davanti al a due battaglioni dei Ranger Usa. Avrebbero dovuto scalarli, e poi neutralizzare i cannoni dei tedeschi, dei 155 millimetri che con i loro venti chilometri di gittata avrebbero potuto scavare Omaha e Utah fino al centro della terra, inghiottendo tutti e 56mila soldati americani che si sarebbero riversati su quelle spiagge.

Il pasto da combattimento

Se andate a Pointe Du Hoc troverete ancora oggi, a ottant’anni di distanza, i segni di quella mattanza. I bunker del Vallo Atlantico, i segni di schegge e pallottole. E le voragini. Decine e decine di voragini che la vegetazione non può riempire, i crateri delle centinaia di proiettili che Kenneth Blaine Smith e i suoi compagni scagliarono su quel sasso a picco sul mare per fiaccare il nemico, impedire ai cannoni di sparare.
I Ranger vomitarono e scalarono la parete, scalarono la parete e conquistarono i bunker. I cannoni non c’erano, il nemico li aveva spostati chissà dove e chissà quando. Dei 225 uomini che avevano tentato e portato a termine l’impresa, a sera ne rimanevano solo 90. Nei tre giorni successivi, tanto ci misero gli uomini di Omaha a raggiungerli, subirono quattro contrattacchi. Resistettero. Con le bistecche e le uova finite a sciabordare sul fondo metallico di una nave, dovettero accontentarsi di due razioni K, il pasto da combattimento dell’esercito. Pranzi e cene dei prossimi tre giorni sarebbero stati contenuti in due “The 24 hour ration”, così c’era scritto sopra i pacchetti gialli a strisce rosse contenuti nei loro 35 chili di equipaggiamento.

Il contenuto: 10 biscotti, 2 sacchetti di farina d’avena, cubetti di tè, zucchero e latte, 1 carne in scatola, 2 tavolette di cioccolato all’uvetta, 1 di cioccolato fondente, 2 pacchetti di gomme da masticare, sale, concentrato di carne. Quattromila calorie, che secondo i cervelloni dell’esercito era quello di cui un soldato aveva bisogno per sostenersi in battaglia. Sul fronte occidentale non ci sarebbero stati più sbarchi, non ci sarebbero state più uova e bistecche, rare osterie in licenza intervallate da settimane di insipide zuppe e razioni K.

Chissà se Kenneth Blaine Smith ripenserà a come caspita faceva a reggersi in piedi in quei giorni, a quei ranci senza sapore, al ricordo del profumo delle bistecche. Chissà se ci ripenserà quando, il 7 giugno del 2024, andrà insieme al presidente degli Stati Uniti d’America a ripercorrere quegli stretti sentieri tra i crateri delle bombe che lui stesso ha creato, sparando dal suo cacciatorpediniere affinché un Ranger in meno morisse, una mitragliatrice tedesca in meno sparasse. Di quelle razioni K ne è rimasta solo una, sta in un museo del Dorset. Non è mai stata aperta, per non far andare in polvere il contenuto a ottant’anni di distanza. Di quelle bistecche e di quelle uova non ne è rimasta nessuna, finite sul fondo dello stomaco o su quello di un anfibio nella notte che cambiò la storia. Rimangono nella mente di Kenneth e di una sparuta pattuglia di superstiti, il più giovane ha 98 anni. Chissà se nel corso degli anni, una domenica in giardino con il barbecue, all’odore della carne sulla griglia avranno ripensato alle bistecche di quella sera di giugno, all’odore della storia e della libertà.

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