Salamureci, storia e ricetta del gazpacho italiano nato quando l'aglio non era un tabù

11 Mag 2024, 11:31 | a cura di
Indicato talvolta come il “gazpacho nostrano”, è in realtà fratello quasi gemello del "salmorejo" di Cordova. La sua storia è antica e le varianti diverse, ma tutte hanno un minimo comun denominatore (senza lesinare sulle quantità): l'aglio

Il 10 giugno 1713 il congresso internazionale di Utrecht sancì inopinatamente la brusca fine della dominazione spagnola in Sicilia. L’improvviso rivolgimento, dopo tanti lunghi anni, non lasciò soltanto una pletora di nobili («142 principi, 788 marchesi e circa 1.500 tra duchi e baroni, senza contare coloro che possedevano titoli finti, tanto comuni che erano state promulgate delle leggi contro di loro», come scrisse con perfida ironia tutta british lo storico Denis Mack Smith); diede pure in lascito agli isolani (circa un milione di persone, a quel tempo) abitudini, modi di essere e stili di vita, il cosiddetto spagnolismo insomma. E non poche ricette. Condizionate anche dall’arrivo, fra l’altro, del pomodoro, di cui è attestata, qualche tempo dopo la scoperta dell’America del 1492, la presenza in Sicilia, prima regione italiana dove ne attecchì la coltivazione. Una ricetta (chiamatela pure, salsa, zuppa, pietanza, antipasto, primo piatto, vivanda unica), di probabile ascendenza spagnola, che ha trovato nel corso dei secoli la sua culla di elezione nell’area trapanese – e che oggi, pur buonissima, rischia di scomparire per lo sconsiderato ostracismo verso l’aglio (basterà rammentare il tenace odio di Silvio Berlusconi per aglio e cipolla) – è quella del “salamureci”, molto in voga in ambito domestico sino agli anni Novanta, che ha avuto in sorte pure di avere attribuiti più nomi o denominazioni. Ma procediamo con ordine.

aglio rosso di Nubia - ristorante Salamureci

Che cos'è il salamureci

Indicato talvolta come il “gazpacho nostrano”, sorta di crema fredda frutto di una preparazione ultrasecolare dell’Andalusia, ha un analogo ma non completamente identico "fratello" nel "salmorejo" di Cordova: se in entrambi l'aglio e il pomodoro sono protagonisti e non ne esistono versioni rigidamente codificate, ci sono altresì - temperature di servizio a parte – differenze significative: nel gazpacho vanno peperoni (e talvolta anche di cetrioli e cipolla) del tutto assenti nel più delicato “salmorejo cordobés”, che in Spagna si usa frequentemente completare con uova sode e “jamon serrano”.

Pare proprio quest'ultimo quindi l'"avo" ufficiale del salamureci: i due lemmi hanno un'impressionante assonanza comune nella lingua parlata, e se il piatto andaluso viene sovente gustato unendovi dell’uovo sodo e del prosciutto iberico, la sapida variante della ricetta classica isolana prevede l’aggiunta di “tunnina”, pezzetti salati di tonno, oppure cuore, budella, “mosciame” (una specie di prosciutto), “ficazza (salame piccante, sempre del prelibato pelagico), le cui particolari lavorazioni - è storicamente accertato - sono state insegnate ai locali da Rais fatti venire appositamente dalla Spagna.

Le tante versioni del salamureci

A Mazara del Vallo le donne di casa usavano preparare sin dal mattino l’“ammogghiu d’agghia”: pomodoro, acqua, basilico, 2 spicchi di aglio (senza lesinare sulle quantità!), olio, sale e pepe. Con questo saporitissimo intruglio si preparava la merenda estiva dei ragazzi, spalmato su una fetta di pane (meglio del giorno prima); sennò a pranzo (era un mondo contadino quello di allora) poteva finire su un coniglio, una lepre o un porcospino che il nonno, il papà, uno zio avevano cacciato all’alba. Se la carne o le grosse lumache (crastuna) scottate sulla carbonella erano indisponibili, piano B: pasta fatta in casa, magari le busiate di grano duro, e tanto tantissimo “ammogghiu”, volendo, per i più fantasiosi ed esigenti, con qualche piccola variante quale l’aggiunta di granella di mandorle.

A Marsala la nostra golosissima pozione si chiamava “matarocco” e si presentava da solo come antipasto freddo, una sorta di clamoroso “sbrogghiapitittu”, come piatto unico - a colazione, pranzo o cena - servito con abbondante pane raffermo (mai buttato). Dagli anni ’70 ai ’90, poi, sempre a Marsala imperversava a casa e nei ristoranti un piatto allora famoso e oggi tristemente “disparu”: “gnocculi al sugo di gronco” (“sucu di runcu”), in sostanza una pasta fresca cavata a mano condita oltre che col gustoso pesce gronco, con un gagliardo tripudio di aglio assai simile, con qualche trascurabile variante, al nostro “matarocco”-“salamureci”. Avvicinandoci a Trapani, luogo dove la ricetta è rimasta forse più a lungo nei codici gastronomici, ci si imbatte, nella vicina Paceco, in una costumanza locale riguardo alla colazione dei contadini al servizio delle famiglie del paese. Queste dovevano provvedervi fornendo, dell’”agghia pistata”, zuppa di pane raffermo nell’acqua fredda condita con pomodori seccagni pelati e tagliati a pezzetti, aglio, basilico, sale e olio, come raccontano Giacomo Pilati e Alba Allotta nel loro libro “Cucina trapanese e delle isole”.

Trapani. Foto di Dorothea Schmind

La ricetta classica prevede una testa d'aglio a persona

È però nel vivace capoluogo che l’aglio ha la sua maggiore manifestazione, la sua epifania più evidente, e questo attraverso la pasta con l’aglio pestato, la “cull’agghia” , che nella ricetta più antica prevedeva una testa d’aglio a persona (si, proprio una testa, non uno spicchio!), più una per la pentola e una per la zuppa. Siano cavati oppure busiate (scartati con qualche sdegno gli spaghetti) è l’aglio il protagonista indiscusso di questa prelibatezza, per fortuna ancora in auge seppure in versione “ammansita” per non far fuggire a gambe levate i clienti. Siffatta “recipe” prevede, a completamento, l’aggiunta nel mortaio di mandorle e, quale rifinitura, pure del pecorino grattugiato (alcuni non lo gradiscono).

Il “salamureci” canonico vive oggi a Trapani in modo stentato e gramo, sostanzialmente solo nelle case dove ci sono componenti piuttosto “âgé”: i giovani scartano con decisione l’idea di mangiare qualcosa che sappia fortemente di aglio. Eppure, quanta Storia e quante storie dietro quel bulbo che è al contempo prodotto di conclamate proprietà salutistiche e magnifico saporito condimento di ricette memorabili. Come amorevolmente ricordano in “Frascatole” Giovanna e Maria Guccione, per parecchi decenni ai vertici della gastronomia di tradizione, trapanese e soprattutto isolana, con il loro famosissimo “Ristorante Egadi” di Favignana, tuttora attivissime come operatrici culturali dalla invidiabile caratura intellettuale: «Al mondo delle cave è legata una ricetta poverissima che ben pochi ricordano ma per i cavapietre era un piatto forte che essi portavano a turno, sul luogo di lavoro, per mangiarlo assieme agli altri compagni di fatica: il salamureci, una specie di gazpacho nostrano, che consigliamo come divertente piatto estivo di gruppo».

La versione del ristorante Salamureci di Trapani

Ciononostante, pur con difficoltà, la flebile fiammella della memoria di questo umile e squisito intingolo freddo di pochi ingredienti sopravvive e continua ad ardere (da ricordare che, a parte l’utilizzo con le paste, rimane una preparazione fredda, prevalentemente estiva, basica e di pochi componenti). In una parte affascinante di Trapani, nell’area della suggestiva Torre di Ligny, c’è infatti per fortuna un bell’edificio di dieci camere di design e un comodo fine ristorante, con luminosa corte interna, dal nome “Salamureci”, che definisce già nell’insegna una tradizione e antiche memorie di una famiglia di origine contadina e, nel contempo, una proposta gastronomica di pregio, quasi esclusivamente ittica, in cui lo storico brodetto è consigliato come tipica e storica “ouverture”, appetizer stuzzicante e originale di qualsiasi pasto, breve o protratto che sia.

Il giovane bravo cuoco-patron Michele Bellezza si fa vanto e orgoglio di proporne rigorosamente la ricetta classica – di cui appresso - che intende preservare tenacemente nella sua essenziale integrità:

La ricetta originale del Salamureci

Ingredienti per 4 persone:

250 gr. di pomodoro ciliegino o “siccagno”
350 gr. di acqua
una manciata di foglie di basilico
2 spicchi di aglio rosso (possibilmente quello di Nubia)
olio extravergine di oliva (preferibilmente da Nocellara del Belìce)
sale e pepe q.b.
pane di grano duro (siciliano, se disponibile)

Utensile (ideale):
mortaio di marmo o legno

Procedimento:

Iniziate mettendo sul fondo del mortaio l’aglio, di cui avrete eliminato prima l’anima, e aggiungete poco sale e del basilico. Pestate energicamente il tutto con il pestello e unite mano a mano il pomodoro, precedentemente sbollentato e privato della pelle e dei semi interni, versando a filo l’olio. Quando vedete che il composto è già omogeneo, completate con l’acqua e aggiustate di sale e pepe. L’ultima parte prevede per il composto – da portare a tavola almeno a temperatura ambiente, ben maggiore la resa se freddo - l’aggiunta del pane di grano duro – meglio se del giorno prima o tostato - con un goccio di profumato esuberante olio extravergine.

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