Il Trigabolo di Giacinto Rossetti, scomparso mercoledì 27 novembre, è stata una fucina di talenti, sbarbatelli che quando entrarono nel locale di Argenta erano sconosciuti e dopo ebbero una grande carriera anche grazie agli insegnamenti di Giacinto. Due dei più famosi sono certamente Igles Corelli e Bruno Barbieri. Abbiamo chiesto loro qualche ricordo di Rossetti.
“La prima cosa che mi viene in mente – dice Corelli - è che purtroppo non vedrà il film dedicato al Trigabolo. E poi c’è una sua frase che mi ronza in testa da quando ho avuto la notizia, che per fare il pesce ci vuole il pesce. Lo diceva sempre”. “A me sai cosa mi dispiace? – si chiede Barbieri – E’ che dopo la morte allora si proclamano i migliori, ma prima nessuno si fa vedere, Giacinto era stato abbandonato da quasi tutti, tranne tutti noi che abbiamo lavorato con lui. Era finito nel dimenticatoio malgrado avesse scritto un pezzo di storia della ristorazione negli anni Ottanta, la transizione tra la cucina della mamma e della nonna e quella contemporanea”.
Spirito (troppo) libero
E’ vero che se oggi dici Giacinto Rossetti solo gli addetti ai lavori sanno (forse) di chi si parli. “Un po’ è dipeso anche da lui. Chiuso il Trigabolo non ha più fatto ristorazione, era come fosse finito il suo sogno. Al massimo ha organizzato qualche cena per un riccone di Bologna con cui collaborava”, considera Corelli. E Barbieri è d’accordo: “Non ha fatto una bella fine. Lui era uno che a un certo punto non voleva farsi aiutare, è stato un uomo anche abbastanza duro, aveva il suo modo di vedere la vita, il lavoro, gli altri. Ed è chiaro che in questo mondo se non scendi a compromessi alla fine resti da solo. E lui è sempre stato solitario, ce l’aveva con il mondo intero, ma aveva una forza straordinaria nel suo modo di porsi e di fare”.
Storia di un visionario
Quando chiedi a Igles e a Bruno di raccontare chi fosse Rossetti sembrano non trovare le parole, o forse ne trovano perfino troppe: “Era matto come un cavallo – dice Barbieri quasi commuovendosi - ma era un uomo profondo, di un’intelligenza fuori dal comune, non si capiva bene, un visionario, un rivoluzionario, che si metteva in casini infernali, era un pazzo. Io devo molto a questa persona, avevamo un rapporto profondo, è stato come un padre. E pensare che prima di buttarsi nell’avventura del Trigabolo vendeva i giocattoli, la madre aveva un negozio al mare”. Corelli ha ricordi anche più recenti: “Una settimana fa abbiamo parlato dell’attualità, di come non gli piacessero i ristoranti di oggi, di come non provasse più emozioni, di come tutti pensino solo a tagliare i costi. Era sempre molto critico”.
L'inizio di una leggenda
Igles e Bruno entrarono da giovanissimi a Trigabolo, era il 1979. Il primo fu Corelli: “Il caso volle che il suo socio, Gigino, era proprietario della Torrefazione Gisetta, che riforniva mio padre di caffè, e una volta chiese a mio padre di indicargli qualcuno di bravo da far lavorare al Trigabolo. E mio padre, che non è che sapesse bene quello che facevo, gli disse: prendi Igles, è bravissimo. Ho fatto un colloquio con Giacinto e sono rimasto là per quattordici anni”. Poi qualche mese dopo arrivò Barbieri, chiamato proprio da Corelli. “Con Igles ci conoscevamo, avevamo lavorato sulle navi insieme – ricorda il giudice di Masterchef -. Mi chiamò e mi disse: vieni a lavorare qui, guarda che è un bel progetto. Arrivai lì ed era una pizzeria, ma poi ci fu la trasformazione”. Trasformazione che fece del Trigabolo una capsula di avanguardia gastronomica venti o trent'anni avanti a tutti, la cosa migliore che potesse accadere all’Italia di quegli anni. “Ma noi mica lo sapevamo - ride Corelli – eravamo talmente giovani! Facevamo delle stronzate, era come un gioco. Poi pian piano iniziammo a capire che cosa stesse accadendo”.
Ecco, cosa stava accadendo? “Accadeva che la cucina andava da una parte e noi andavamo nella direzione opposta, noi eravamo i rivoluzionari. La lepre alla royale in Francia si cucinava 48 ore, noi la facevamo al sangue, noi mangiavamo il cervo crudo. Rossetti aveva fondato l’università dei sapori dove sono passati tutti, da Ferran Adrià a Bottura”. E anche Henri Gault, il teorizzatore con Christian Millau della nouvelle cuisine, portato al Trigabolo da Federico Umberto D’Amato, il gastronomo 007. “Venne Gault, ci chiese le medaglie di faraona allo zabaione di parmigiano ma non gliele facemmo perché le avevamo tolte dal menu il giorno prima. Le avremmo potute fare benissimo, ma Rossetti era così”.
Piatti espressi
Al Trigabolo accadevano cose allora incredibili, “qualcuno le chiamava manie di grandezza, ma il fatto è che Giacinto era un visionario e tutti gli riconoscevano quest’aura, e infatti era un pellegrinaggio di grandi”, dice Barbieri. “Quando arrivava l’ordine per la pasta fresca la sfoglina iniziava a tirarla – ricorda invece Corelli -. Avevamo talmente poca voglia di lavorare che arrivavamo in cucina a mezzogiorno, così facevamo le cose un po’ all’ultimo. Poi ci siamo resi conto che tagliare la zucchina al momento era meglio”. Cose che accadevano, si badi, non a Milano o a Roma, ma “ad Argenta, che non era mica bellissima – ricorda Barbieri -. Una piazza mussoliniana in mezzo a una nebbia della madonna, però veniva gente da tutto il mondo, pure Andy Warhol”.
Rimpianti
Tanta fantasia, tanta visione, ma di soldi pochi. “Non abbiamo mai guadagnato una lira – dice Barbieri -. Prendevamo l’auto alle cinque di mattina per andare alla Ginori per comprare i piatti di seconda linea perché la prima non potevamo permettercela. Poi però una volta Giacinto venne da me e mi disse: lavori bene, voglio farti un regalo. E mi allungò un Rolex”. Fatto sta che il Trigabolo nel 1993 fallì e con esso la sua epopea e un pezzo dell’anima di Rossetti. “Non amava i compromessi – sintetizza Corelli -. Ricordo che una volta andammo a un concorso, la Cipolla d’oro, preparammo questo crème caramel di cipolla al fegato grasso e lui volle strafare e gli abbinò un Sauternes, ci tolsero dieci punti per avere usato un vino francese, ma alla fine vincemmo lo stesso. Lui disse: lo sapevo, il piatto era talmente buono, anche se questi non capiscono un cazzo”. “Sono felice di averci lavorato assieme conclude Barbieri -. Mi ha insegnato a provarci sempre, a non mollare mai, ad andare avanti per la mia strada. E poi lui sapeva dire bravo. E questo non è poco. Pace all’anima sua”.