«Il provvedimento si basa su un articolato quadro istruttorio, che evidenzia come l’amministratore unico della società ricorrente abbia legami, discendenti da pluriennali rapporti economici e da forme di sodalizio, con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso». Si legge così nella sentenza del Tar della Lombardia che nelle settimane scorse ha confermato la misura interdittiva emessa dalla Prefettura di Milano contro due bar della periferia urbana, uno a Sesto San Giovanni e uno a Peschiera Borromeo.
Le mani in pasta
Entrambi i locali erano intestati a un signore arrestato a Palermo nell'operazione "Mani in pasta", uno dei blitz che si succedono nella lotta ai clan. Sulla base delle carte arrivate dalla Sicilia, il prefetto di Milano aveva espropriato i due bar, nominando un curatore giudiziario: come prevede la legge ormai da anni, da quando si è capito che colpire la faccia economica della mafia, attaccare i suoi investimenti nel mondo degli affari, è altrettanto efficace dei mandati di cattura. Ed è anche fondamentale per tutelare gli imprenditori perbene dall'assalto poderoso e sleale dei capitali e dei metodi mafiosi. Insieme all'edilizia e al suo indotto, il mondo della ristorazione è da sempre il canale privilegiato degli investimenti criminali al nord.
Il problema è che il titolare dei due bar sequestrati nel Milanese dopo essere arrestato è stato scarcerato e poi assolto. Ciò nonostante l'interdittiva antimafia è stata confermata dal tribunale amministrativo. Il signor V.A.P., queste le sue iniziali, non sarà un mafioso ma fa parte, secondo i giudici, di quella "zona grigia" che aiuta i clan e ne viene aiutata, un mondo di mezzo senza il quale la penetrazione criminale non sarebbe possibile.
Le misure della prefettura
Come si legge nella sentenza, per colpire con l'interdittiva un locale basta che «le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia».
Questa, per la Prefettura e per il Tar, era la realtà dei due bar milanesi di V.A.P. Troppo severi? I dati recuperati dal "Gambero Rosso" dicono che in realtà a venire colpita in questo modo è una percentuale quasi insignificante degli esercizi pubblici di Milano e del suo hinterland. Tra il 2018 e il 2023 sono state emesse dal Prefetto del capoluogo lombardo 32 misure interdittive antimafia nei confronti di ristoranti e di bar: il picco più alto nel 2022.
Sospetti e accuse
Disaggregando i dati del 2023 si scopre che a Milano sono stati raggiunti dall'interdittiva tre bar, due ristoranti e quattro pizzerie. Un po' poco, rispetto alla percezione che molti operatori del settore hanno dell'invadenza di locali quantomeno sospetti. La fatica nell' ottenere crediti dalle banche, nell'onorarli, nello scavallare gli anni impervi dell'avviamento, è una realtà ben nota a chi fa onestamente ristorazione. E la disinvolta rapidità con cui invece alcuni esercizi nascono e figliano rende inevitabili i sospetti e le voci.
Voci a volte ingiustificate, specie se l'unica colpa rinfacciata a chi avvia i locali è quella di provenire dalle zone d'Italia a maggiore penetrazione criminale. Mentre invece lo sbarco dal sud a Milano dell'imprenditoria meridionale è ricco anche di storie belle: uno dei più noti tra i volti del settore a Milano ha alle spalle crude storie familiari da cui ha avuto la forza di sganciarsi. La sorella di un uomo legato alla 'ndrangheta di Bareggio è nello staff di fiducia di un grande ristoratore. Per chi sa recidere i legami familiari, Milano è accogliente.
La mafia
Però il problema esiste, ed è sotto gli occhi di tutti. Le grandi inchieste antimafia degli anni Ottanta e Novanta avevano come ospite quasi fisso il "ristoratore del clan", l'uomo di fiducia piazzato alla guida del locale, spesso noto. La spiegazione era semplice: investire nei pubblici esercizi non permette solo di riciclare ma anche di fare lavorare i picciotti, di controllare il territorio, di avere punti di ritrovo. Difficile pensare che tutto questo ora non esista più.
Più discretamente, forse meno efficacemente, la passione per bar e ristoranti resta nel Dna di clan di ogni provenienza. Le interdittive dell'ultimo anno a Milano hanno avuto per destinatari solo soggetti in odore di camorra, ma il più prestigioso tra i bar sequestrati recentemente , il Giorgi’s, davanti alla Pinacoteca Ambrosiana, aveva alle spalle uomini della ‘ndrangheta calabrese. E, come si è visto nel caso della operazione “Mani in pasta”, la mafia siciliana non è da meno.
E allora perché solo una manciata di bar e ristoranti milanesi finiscono nel mirino delle prefetture? La tendenza nazionale peraltro è di segno opposto, secondo i dati della Dia anticipati dal Sole 24 Ore nel 2023 le interdittive hanno fatto segnare un + 34,2 per cento a livello nazionale: ma Milano resta sostanzialmente stabile e la Lombardia nel suo complesso scende del 16,7 per cento. La spiegazione degli addetti ai lavori è semplice: al nord i legami sono spesso più diluiti, più sfumati, dimostrare la continuità della catena di comando è più complicato, il rischio di emanare provvedimenti che poi vengono azzerati dai ricorsi è più elevato.
In attesa dell'Europa
E a spiegare una certa cautela nell'applicare più diffusamente le norme antimafia contribuisce non poco l'attesa per la decisione della Corte europea dei diritti dell'Uomo, chiamata a breve a pronunciarsi sulla legittimità delle interdittive: che violerebbero il diritto comunitario a causa della "vaghezza" dei requisiti richieste per emanarle.. Dalla corte di Strasburgo fanno sapere che "cinque casi sono stati notificati al governo italiano" e sono in attesa di essere messi in calendario per la decisione.