Franco Aliberti ha preferito la famiglia al lavoro. Lo ha deciso nel pieno della sua carriera, in una fase cruciale in cui avrebbe potuto dare ancora tanto al mondo della ristorazione. La voglia di non perdersi neanche un attimo della crescita del figlio lo ha convinto a lasciare un incarico prestigioso alla corte del pluristellato Enrico Bartolini. Come si legge sul sito internet del pasticcere, «per cucinare bene bisogna essere felici». E, lontano da casa, Franco non lo era più. Il fine dining è solo un ricordo: oggi trasmette le proprie conoscenze, acquisite nelle cucine di Bottura e Ducasse, ai giovani dell’alberghiero. A sentirlo sembra contento di come siano andate le cose, del cambio di vita fatto e di essere in viaggio con i propri cari. Ne abbiamo approfittato per avere una panoramica sincera sull’evoluzione della cucina contemporanea e sulle contraddizioni di un settore che stenta ad adattarsi al cambiamento e continua a registrare abusi sul personale.
Come si è avvicinato alla cucina?
Provengo da una famiglia del Sud Italia. Ci siamo sempre prodotti tutto in casa. Tra conserve di pomodoro e impasto della pizza giocavo spesso con elementi di cucina. Sono cresciuto sporcandomi con i prodotti della terra perché mia madre era una contadina. Lo devo a lei e alla filosofia di famiglia se mi sono avvicinato di più.
Due anni fa lei ha tagliato i ponti con il mondo dell’alta ristorazione. Ci spiega perché?
Una delle migliori scelte che potessi fare, a prescindere dal fatto che fosse il lavoro che avevo sognato e che, in un certo senso, sogno tuttora. Ma alla fine avrei comunque scelto di stare con la mia famiglia. L’haute cuisine è un mondo che si sarebbe scontrato con il mio modo di pensare. Cosa che accade quando faccio notare ad amici e colleghi che non è sano cucinare 14 ore al giorno o rimanere così lontani dalla propria famiglia. Ne risentono salute fisica e mentale. Riposare fa bene, anche alle idee, e consente di essere più performanti. Sono cose che si capiscono solo scollandosi da quella realtà.
Il fine dining visto da fuori?
Stiamo sbagliando qualcosa. Lo dicono i numeri, con le nuove generazioni che non si affacciano più al mestiere come in passato. C’è un retaggio culturale che ci impedisce di cogliere che i vecchi metodi non funzionano più. Sento dire che ci stiamo adattando ai tempi, ma non è vero. In Italia non c’è evoluzione, basta vedere dove sta andando la cucina del Nord Europa, capace di dimostrare che la sensibilità per ciò che ci circonda fa la differenza. Se facciamo fatica — pure a trovare e gestire il personale — è proprio perché non riusciamo a cambiare il sistema creato.
I giovani non sono più disposti a sacrificarsi in nome della passione. Si può fare qualcosa per avvicinarli?
Alle nuove generazioni non basta più la passione, che è un grandissimo valore aggiunto; fa sentire meno la stanchezza. Ma non va confusa con il lavoro, che rimane tale. Non è vero che non sono disposte al sacrificio. Hanno semplicemente paura che gli sforzi non portino i risultati sperati; che vi sia solo sfruttamento, senza alcuna crescita professionale. Preferiscono lavorare in cucine meno blasonate, per avere più spazio o tempo libero. Manifestano ansie che noi sapevamo nascondere. Stress che aumenta nel caso di brigate in cui la gerarchia è ferrea e si trattano malissimo i ragazzi senza motivo. Questo le fa allontanare. È invece importante spiegare loro che le pressioni si possono imparare a gestire. Per avvicinarle basterebbe far capire quanto è bello il supporto reciproco all’interno del team di cucina.
Un episodio di abuso che ha segnato in negativo il suo percorso professionale?
Ho vissuto ogni maltrattamento come una sfida. Piuttosto, mi ha dato fastidio in certe cucine non poter valicare determinati confini, oltre i quali avrei potuto imparare qualcosina in più. Le volte in cui mi è capitato di vivere simili dinamiche tossiche, me ne sono andato.
Che cos’è che non ha funzionato nel progetto Anima dello chef Bartolini? Era un ambiente tossico?
Non darei la colpa a nessuno. Sono sereno avendo rispettato i termini del contratto (dimissioni rassegnate con regolare preavviso). Capisco l’amarezza di un imprenditore (Bartolini) costretto a trovare il sostituto per un ruolo cruciale come quello di executive chef; meno le parole di rabbia usate. Ai colleghi dico che i ragazzi vanno supportati nelle scelte. Mi dispiace solo di aver deciso di cambiare stile di vita in concomitanza con il progetto di Enrico. Ho trovato il coraggio per mio figlio, mettendo da parte la paura di essere giudicato.
Trovare un equilibrio fra lavoro e vita privata è davvero un’utopia?
È possibile eccome. Ce lo stanno insegnando tutti all’estero. L’equilibrio si può trovare, magari guadagnando meno all'inizio. È essenziale però che non ci siano perdite; un’azienda deve essere sostenibile pure sul piano finanziario. Ho amici che si trasferiscono in altri paesi per beneficiare della “giusta” retribuzione senza rinunciare a famiglia e riposo, con un congedo di paternità che può durare mesi. Solo in Italia è utopia. Si trovano ancora ragazzi disposti a fare tante ore, ma non sarà così a lungo.
Ha lavorato anche in Francia. L’austerità della catena di comando si fa sentire di più lì o è solo un luogo comune?
Da Ducasse è stato difficile perché conoscevo poco il francese. Nonostante l’idea militarizzata della cucina transalpina, si è rivelata una bella esperienza. Ho trovato una gerarchia ben pensata, con due brigate distinte: una per la preparazione e l’altra per il servizio. Ci sentivamo più leggeri perché nessuno veniva spremuto con doppi turni. Il compito di ognuno era definito, controllato da un superiore e non soggetto alla sua voglia di comandare.

Da pastry chef può confermarci che nella pasticceria la libertà d’espressione è maggiore?
Una delle ragioni per cui ho deciso di fare il pasticcere. Partita in cui si può trovare più spazio e c'è un senso di libertà diverso. Pesa meno modificare i dessert tradizionali rispetto a capisaldi della cucina come i tortellini.
Per lo stesso motivo vediamo più donne nelle brigate di pasticceria?
Si sentono più a loro agio. Ma nel 2025 le donne sono ancora in netta minoranza. Nelle brigate i ragazzi hanno difficoltà a interagire con delle figure femminili, hanno timore di delegare o dare loro spazio, perché propongono una visione diversa, migliore.
Cosa le manca del passato?
Della ristorazione non mi manca la ricerca del consenso presso la critica. Una camicia di forza alla creatività. Seguire i canoni Michelin per rientrare a tutti i costi in guida si scontra con la filosofia no waste cui mi ispiro. Non ho problemi a dire che quelli della Rossa sono criteri poco fruibili. Basterebbe indicarli. Nessuno sa per quali fattori vengono riconosciute le stelle. Conoscerli aiuterebbe i cuochi giovani più ambiziosi. Ma lo status quo fa comodo; avere dei criteri trasparenti aumenterebbe la concorrenza a discapito dei soliti noti che potrebbero essere scalzati dalle nuove leve. Come categoria dovremmo fare gruppo. Mancano coesione e solidarietà.
Il modello dell’alta cucina sta diventando sostenibile?
C’è tanto da fare. La sostenibilità è una parola così abusata nel marketing che ormai non viene più percepita come valore effettivo. Quella legata alla ristorazione è per la maggior parte green washing; nei menu si trovano ancora foie gras e anguilla, pesce che stiamo estinguendo. Non si è sostenibili solo nella filiera, ma anche nella gestione dell’azienda. Quindi, non si può parlare di sostenibilità se i dipendenti lavorano come dannati. Mentre poi alcune stelle verdi non hanno realmente a cuore la sostenibilità, altre realtà più piccole mandano avanti dei progetti green per davvero. Solo che non vengono prese in considerazione perché escluse dal circuito delle guide. Il problema è che, in mancanza di visibilità, rischiano di morire prima che uno se ne accorga.
È cambiato il modo in cui vede la gastronomia?
Adesso, vivendo a pieno la dimensione domestica ed occupandomi della cucina di casa, mi sono riappropriato della passione culinaria che avevo un tempo. Ho di nuovo dei sogni per cui non c’era più posto. È bello poter far da mangiare ai bambini senza essere schiavi della routine e doversi attenere a dei canoni. Divertente insegnare ai ragazzi dell’alberghiero, incontaminati dal mondo professionale. La loro euforia ai fornelli è contagiosa.
Il cuoco del futuro sarà più consapevole o elitario, più cuciniere o divulgatore?
L’alta ristorazione si rivolge a un pubblico di nicchia, ma oggi c’è maggiore consapevolezza. Tant’è che le proposte dei menu sono dirette a più persone. Mi auguro che il modello trovi il modo di farsi più accessibile. Mi aspetto un grande ritorno alle tradizioni culinarie. Si cercherà uno stile più comfort e meno artificioso. Che il cuoco torni cuciniere. Prima la cucina, poi la divulgazione. Che sia il piatto a lasciar intendere filosofia e identità di un ristorante, non lo storytelling.