In Salento resiste un ristorante di pesce alla vecchia maniera (che serve crudi fantastici)

9 Dic 2024, 17:49 | a cura di
Nell'entroterra pugliese, il ristorante Locanda dei Camini sembra una galleria d'arte, con arredi che ne celano l'anima popolare e anarchica, espressa in pieno dal suo istrionico oste

L’Italia dei food influencer, degli chef e delle nonne in cucina. E la figura dell’oste? Esiste ancora? Diciamo che sono sempre meno. Qualcuno però non demorde, nonostante l’omologazione e la tendenza a improntare tutto sulla cucina d’autore, relegando la sala a componente marginale o secondaria. Nel Salento dell’overtourism, per esempio, ce n’è uno che resiste, senza mollare di un centimetro, credendo che lo spessore di un locale, persino del più verace, si misuri sulla personalità e qualità del servizio. È uno dei proprietari della Locanda dei Camini, ristorante di pesce vecchia maniera che anima il paesino di Botrugno. E, da quello che è emerso nel corso di una cena dell'ultimo autunno, non sembrerebbe avere tutti i torti.

Parte della galleria d'arte arricchita da lampadari di Murano (La Locanda dei Camini)

La trattoria di mare sui generis

Vicino la piazza principale, all’interno di uno dei palazzi più antichi del paese — un’antica farmacia di fine ‘800 — si trova La Locanda dei Camini, una trattoria di mare sui generis, di quelle che stanno scomparendo, particolare anche negli interni, dai lampadari di Murano ai quadri dipinti dal cuoco della casa, Oronzo Rizzello, diplomatosi da giovane all’istituto d’arte. A dominare la sala (o il dehors interno d’estate) un oste vivace, di grande carattere, che serve gli ospiti con fare accogliente e passo un po’ compiaciuto. A suo modo, un maestro dell’accoglienza salentina. Eppure qualcuno potrebbe storcere il naso per qualche manovra rustica, poco ortodossa, ma è una parte del “pacchetto” che in realtà rende unico un posto del genere; soprattutto se si considera il processo di turistificazione che piano piano sta cambiando l’area, inclusa la ristorazione. Giuseppe Erriquez però, al di là di qualche piccola stravaganza, è un vero one man show, capace di rendere caratteristico anche il servizio dei crudi al tavolo, must assoluto della locanda. Con il suo mitico carrello — altro che guéridon — delizia i commensali estraendo dai vari cassetti il pescato, con dressing da aggiungere al momento. Nel nostro caso, tra i crudité, prodotti ittici freschissimi come calamaro, gamberetti rosa, gamberi rossi, scampi, sarago, alalunga, pesce angelo, ombrina e lucerna, assaggi messi al centro a mo’ di condivisione ed esaltati da vari abbinamenti gestiti in modo parsimonioso e sapiente, con qualche composta (cipolle, mandarino), dell’olio evo, un pizzico di pepe oppure del fior di sale, o addirittura un velo di tartufo nero.

Giuseppe Erriquez, oste de La Locanda dei Camini

Un’esperienza gastronomica "nuda e cruda"

Sì, a metà fra il ristorante e la trattoria, La Locanda dei Camini è francamente un ristoro d’altri tempi. E, nel bene o nel male, lo si avverte già dalle teglie gastronorm esposte al pubblico, in cui si vedono aragoste e altre specie ittiche ancora vive dimenarsi sino all’ultimo respiro. Emblema di una ristorazione considerata da qualcuno ormai obsoleta, grossolana. Ma l’apparenza inganna, come in parte potrebbe dimostrare il numero elevato di persone sedute, degli afficionados locali soddisfatti dall’accoglienza calorosa e alla mano, qui garantita da questo oste speciale, che viene chiamato per nome da molti dei presenti. Un professionista sempre vigile in sala, che non abbandona mai, nemmeno al momento del conto. Salentino doc, innamorato della propria terra, come del mestiere: «Noi camerieri [...] siamo nati per questo lavoro. Ci piace. [...] ma il Salento è diventato troppo turistico, con liste infinite al posto del menu (preferisce suggerire pochi piatti a voce)».

Linguine con la cicala di mare

Old School (ma neanche troppo)

Dall’altro lato, non si fa meno soddisfacente la proposta culinaria, che parte innanzitutto dal pescato del giorno, proveniente dalle pescherie di Gallipoli e Castro. Una cucina di mercato che ha quale principio cardine quello di manipolare poco o nulla la materia prima; ci si rifiuta quindi di ricorrere a lunghe cotture (al massimo si aggiunge un pochino di «fumetto») e di sale se ne usa davvero poco, sempre con l’intento di privilegiare «la naturalezza iodata del pesce». Lo stesso vale per l'impiego delle erbe aromatiche. Da quanto testimoniano la maggior parte delle portate dall’anima quasi casereccia qua si sceglie la semplicità. A proposito, meritano una menzione particolare le linguine con la cicala di mare, rarità delle nostre acque («adesso, la media è di 3 ogni 300 aragoste»): una forchettata dolce, dalla polpa carnosa, più intensa degli altri crostacei, e dal profumo ammaliante. Tutto servito all’interno di un padellone di rame. Old school! Gli elementi rétro, al pari dell’approccio diretto del personale, non devono tuttavia lasciar credere che il servizio sia “alla buona”, nell’accezione negativa dell’espressione.

Per quanto "genuino", nulla infatti è veramente approssimativo o sbrigativo da queste parti. Gli indizi sono molteplici: dalle «cucuzzate» fatte con verdure di stagione — pane fait maison che arriva caldo in tavola (quante volte accade?) — alle tempistiche incredibilmente rapide con cui si viene serviti, nonostante la cucina praticamente "espressa". Per capirci, la cicala è stata cotta in una decina di minuti. Poi certo, tutto è migliorabile. La carta dei vini, ad esempio, potrebbe riflettere in misura maggiore il territorio sganciandosi dai soliti grandi classici. Resta il fatto che oggi, in un momento in cui manca spesso un pizzico di originalità e i locali si assomigliano un po' tutti, luoghi così rimangono un unicum.

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