È paradossalmente una delle prime volte che una mail di precisazioni e di replica da parte di un ufficio stampa riesce a confermare per filo e per segno tutto ciò che si sarebbe voluto smentire. Parliamo – e non lo facciamo volentieri, perché pensavamo tutto sommato di aver chiarito la cosa e soprattutto che fosse chiaro il senso delle riflessioni critiche – del progetto “neocoloniale” e un po’ razzista del Rhinoceros Rooftoop Roma nel palazzo della Fondazione di Alda Fendi firmato dal barman Matteo (Zamberlan) Zed che punta a proporre la sua Safari Experience.
Stereotipi, ignoranza e velato razzismo
Le “accuse” al barman sono quelle di stereotipare l’idea di un’Africa ferma forse all’immaginario degli anni Sessanta, di ridicolizzare un intero continente e banalizzare i danni di un colonialismo becero e che si può riassumere nei caschi da giovani esploratori forniti ai camerieri in una divisa da “safari” estrapolata dal film di Scola con Alberto Sordi del 1968, quello con gli indigeni che possiamo ricordare con l’urlo tribale finale “Titì nun ce lascià”. Che sulla terrazza del Rhinoceros sarebbe accompagnato, al tramonto, dalle vibrazioni del corno che i camerieri hanno allacciati ai calzoncini da esploratori. Per non parlare poi della drink list, “ispirata” prima ad etnie africane che poi – dopo le prime critiche e dubbi di razzismo – sono state cambiate in nomi di alcuni stati del Continente. Anche se non si capisce cosa c’entrino la vodka o la tequila o i capperi o quant’altro con l’Africa.
Il superficiale legame con il rinoceronte
L’idea Safari Experience di Matteo Zed – scrive però l’ufficio stampa che difende il barman – è un viaggio di scoperta nelle riserve naturali in cui vive il protagonista dello spazio Rhinoceros, la cui icona si trova al piano terra della struttura. «Abbiamo dato vita ad uno spazio estremamente originale, che vuole regalare vibes positive ai clienti. Piante, bonghi, complementi d’arredo, musica, colori e soprattutto la nuovissima drink list ispirata al Safari ed alle materie prime provenienti dall’Africa contribuiscono e creare un ambiente di grande fascino ma al tempo stesso rilassante ed accogliente», spiega Zed rilanciato da una nota che alla fine conclude così: “Siamo orgogliosi del lavoro di Matteo Zed e suo team che ha contribuito a questo progetto. Ci dispiace per il fraintendimento rilevato nel vostro articolo e speriamo che questa email possa contribuire a correggere tali inesattezze. Cogliamo l'occasione per allegare il comunicato stampa fedele al progetto, fiduciosi possiate rettificare quanto da voi pubblicato o cortesemente rimuovere l'articolo online in attesa che organizziate una vostra intervista al Sig. Zed”
Una replica che conferma le critiche
Non abbiamo nulla, ma proprio nulla, contro il signor Zed. Ma non riusciamo a capire quali sarebbero le “nostre” inesattezze e cosa dovremmo correggere in quanto scritto nell’articolo dal titolo: “Stereotipi e cocktail colonialisti: quel che ci lascia perplessi nella nuova avventura di Matteo Zed”. La replica dell’ufficio stampa, infatti, ci conferma le sensazioni che abbiamo avuto fin dall’inizio: il progetto in uno dei luoghi più spettacolari di Roma, nel cuore del Velabro, nasce da un mix di ignoranza, pressapochismo, superficialità che purtroppo oscurano la bellezza del contesto.
Spessore e cultura intorno al cibo
Noi, nel nostro mondo legato al bere e al mangiare, non ci occupiamo in realtà di bere e di mangiare: ci occupiamo di cultura. Un piatto, un drink e le emozioni – anche inconsce – che trasmettono in chi ci si avvicini, sono vettori di cultura perché sedimentano nei nostri cuori, nelle nostre menti, esperienze che ci formano e che formano la nostra idea del mondo. Certo, ci nutrono anche. Ma ormai – nell’epoca in cui (almeno da noi) la fame non è più un dramma quotidiano e in cui non si mangia per sopravvivere – il cibo, il vino, la mixology con i loro contorni e il modo in cui li condividiamo ci aiutano a costruire la nostra idea del mondo, il mood di come consideriamo ciò che ci sta intorno. Davvero – chiediamo noi ai titolari di Rhinoceros e anche al barman Zed – le vibes (vibrazioni) relative all’Africa, oggi, possono essere stimolati dai Watussi o dalle tutine in stile coloniale o dai caschetti fin-se-siecle? O non si tratta invece di un pressapochismo che non è degno di un luogo di storia, di bellezza, di cultura e di arte? Probabilmente la necessità di mettere in piedi un progetto, di colmare un vuoto lasciato dall’uscita di scena di Christian Comparone che aveva seguito il progetto mixology del Rhinoceros fino a poco fa e da un turn over dei dipendenti vicino al 100%, ha “costretto” la proprietà a scelte affrettate e poco ponderate. Che sarebbe intelligente analizzare in profondità piuttosto che ostinarsi a difendere anche di fronte all’evidenza.
Post scriptum per una riflessione
Il Rinoceronte che dà nome e immagine a Rhinoceros Rooftop è una delle icone più interessanti e di spessore nel mondo dell’iconografia occidentale e non solo. La sua fama si deve alla celebre xilografia di Albrecht Dürer che nel 1515 rappresentò l’animale che – dopo mille anni di assenza dalle scene europee – venne regalato e da Muzafar II, sovrano dell’attuale Gujarat nell’India occidentale, al viceré del Portogallo a Goa, Alfonso Albuquerque il quale lo inviò a sua volta al re del Portogallo per la sua collezione di animali esotici. Sorvoliamo sulla storia e sulla fortuna di questa immagine, ma per sottolineare l’importanza di una simile icona scelta per la Fondazione di Alda Fendi citiamo la considerazione della scrittrice ed editrice Giovanna Zoboli: “La realtà nell'esperienza umana è sempre mediata dai linguaggi che la elaborano, la realtà fornisce ai linguaggi i materiali che verranno elaborati simbolicamente. Nel momento in cui ciò accade la realtà rappresentata diventa essa stessa simbolica. Il rinoceronte, appena sbarcato in Europa, smette di essere solo un animale, diventa immagine di se stesso ma anche di qualcos'altro: entra cioè a fare parte di un sistema simbolico complesso. A costruirlo come tale sono, insieme, parole e immagini, ma anche gli eventi reali che offrono materiale ai racconti. Il linguaggio infatti non si dà senza realtà, ma nello stesso tempo è l'espressione sia della cultura sia del soggetto che lo utilizza. È il punto di incontro fra soggetto, cultura e realtà”. Ecco, ci scusiamo per il tecnicismo di questa citazione, ma la speranza è che possa far riflettere su quanto sia importante un’immagine e quanto debba dialogare con la realtà, con l’ambiente, con i simboli. Beh, l’icona del Rhinoceros – simbolo di potenza tranquilla, ma anche protagonista di una storia fatta di stupore e di curiosità – poco si lega alla Safari Experience di Zed. Ci sembra.