Quanto costa davvero il cibo che mangiamo? Conta anche l’impatto ambientale: la ricerca

23 Gen 2021, 10:29 | a cura di
Pubblicata su Nature da un gruppo di studiosi tedeschi, la ricerca prende in considerazione le cosiddette esternalità negative per dimostrare quanto aumenterebbe il prezzo del cibo che mangiamo tenendo conto dell’impatto ambientale della filiera produttiva. E il costo della carne schizza alle stelle.

“Quanta foresta avete mangiato oggi?”, si chiedeva qualche tempo fa il WWF, titolando provocatoriamente il suo rapporto sul legame controverso tra consumi alimentari e deforestazione globale. La ricerca evidenziava le responsabilità taciute dei principali Paesi produttori e importatori (tra cui l’Italia) di generi di largo consumo come la carne bovina, il caffè, la soia (che riporta agli allevamenti intensivi, dov’è ingrediente principe dei mangimi per animali). L’obiettivo? Aprire gli occhi dei consumatori, e ribadire l’importanza di scegliere il cibo responsabilmente.

Quanto costa il cibo che mangiamo? La ricerca su Nature

Da premesse e con intenzioni analoghe nasce la ricerca pubblicata a dicembre 2020 sulla rivista scientifica Nature, che pone però la questione in termini di costi economici per i singoli consumatori. In sintesi: quanto costerebbe il cibo che mangiamo se tenessimo conto dell’impatto sul Pianeta? Lo scopo della ricerca - calata nel contesto tedesco, ma facilmente esportabile in buona parte dei Paesi d’Europa, e ripresa, in Italia, da Asvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile – è quello di svelare il costo “reale” dei prodotti alimentari. Ma bisogna intendersi su ciò che vuol dire reale, nella prospettiva dei ricercatori. Non parliamo, infatti, dei soldi necessari per acquistare un chilo di carne come da prezzo in cartellino. La teoria economica cui fa riferimento lo studio si concentra sul concetto di esternalità negative, cioè tutti quei costi non espliciti che pesano sulla collettività (e dunque anche sui singoli consumatori) per responsabilità delle aziende che producono determinati beni e servizi. Ed è proprio nell’ambito dell’impatto ambientale che scontiamo tutti il prezzo più alto.

Il vero prezzo di un chilo di carne

Per tornare all’inizio, poiché la produzione di un chilo di carne comporta, nel sistema degli allevamenti intensivi che riforniscono la grande distribuzione, conseguenze allarmanti per il clima e la biodiversità - pesando sui cittadini in termini di inquinamento, spese sanitarie, alterazioni dell’ecosistema – allora una bistecca arriverà a costare il 146% in più di quanto dichiarato dallo scontrino. E se questo sovrapprezzo fosse esplicitato - prosegue la ricerca – caricando il costo ambientale sul conto finale, allora, forse, inizieremmo a ripensare le nostre abitudini alimentari, scegliendo prodotti più sostenibili e prediligendo diete a base vegetale, che – nel sistema di calcolo proposto dagli studiosi tedeschi – comporterebbero un aumento di prezzo pari solo al 6%. Nel mezzo di questo listino “reale” stanno i prodotti lattiero-caseari, con un aumento del 91% rispetto allo scontrino dichiarato. Ma quali sono i costi invisibili che determinano l’incremento di prezzo? Le emissioni di metano, per esempio, ma anche l’utilizzo massivo di fertilizzanti e pesticidi che impoveriscono il suolo, le emissioni di CO2 e polveri sottili causate dal sistema dei trasporti e dal riscaldamento. E, in particolare per quel che riguarda la carne, i regimi biologici non alleviano l’aggravio, perché pur riducendo l’utilizzo di sostanze inquinanti, richiedono maggiori estensioni di pascolo, e dunque “consumano” più suolo.

Aumentare i prezzi per mangiare meglio?

Tracciato il contesto, la ricerca pone un interrogativo diretto alle politiche alimentari europee: se è auspicabile aumentare i prezzi sulla base dei costi ambientali, come evitare di rendere il cibo un prodotto elitario? Garantire il diritto al cibo dovrebbe essere priorità di ogni governo. Qualora si scegliesse la strada indicata – portando evidenti benefici non sono ambientali, ma anche sanitari -  dunque, si dovrebbe essere pronti a offrire sussidi e misure di compensazione capaci di preservare il principio di sovranità alimentare.

La ricerca completa su Nature

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