Giovanissimo, ha già collezionato esperienze di rilievo nelle cucine di grandi cuochi italiani e francesi, dai fratelli Portinari alla famiglia Troisgros. Francesco Capuzzo Dolcetta fa parte della brigata di Marzapane da poco più di un anno e si è affermato in breve tempo come executive chef di uno dei ristoranti più promettenti nel panorama romano.
Il premio nella Guida Ristoranti d'Italia
Dopo l'uscita di scena della chef Alba Esteve Ruiz (ora all'Antica Fonderia Roma), il patron Mario Sansone ha voluto affidargli l'incarico, premiando la maturità e la crescita personale di cui ha dato prova negli ultimi mesi. Marzapane, infatti, è un vero laboratorio creativo di sperimentazione e ricerca gastronomica. Non a caso Dolcetta figura come nuova promessa della cucina italiana fra i vincitori del Premio chef under 30 della Guida Ristoranti d'Italia 2020 del Gambero Rosso, proponendo un menù dinamico e sorprendente che racconta le sue origini, contaminate anche da un vivace contributo di influenze estere; l'ultima in Giappone. Lo chef ci ha parlato di sé e della sua cucina.
Quali sono i tuoi primi ricordi ai fornelli?
I primi ricordi in cucina sono legati alle mie origini. Mia madre è napoletana, mio padre milanese. Ho appreso molto dalle tradizioni culinarie di tutti e due i rami della famiglia, ma ho sempre amato di più i piatti campani. Un sapore ancora vivo nella memoria è quello della parmigiana di melanzane che mia nonna preparava come pranzo estivo, per portarla al mare. Mio nonno, invece, cucinava sempre la pizza tonda cotta nel forno a legna. Da lì è nato il mio interesse per il cibo: osservavo i loro gesti e piano piano ho iniziato ad affiancarli per imparare le basi.
Hai lavorato con Marco Viganò, ex allievo di Marchesi e Lopriore. Quanto ha influito la sua visione creativa sulla tua cucina?
Il periodo trascorso all'Aux Anges di Roanne con Marco, uno dei miei primi maestri, è stato una grande occasione. Lì per la prima volta ero uno chef de partie, avevo una responsabilità. Mi ha aiutato moltissimo ad aprire la mente e a esplorare giochi di consistenze e abbinamenti insoliti fra gli alimenti più disparati. Lavoravamo intensamente alla ricerca della materia prima nei boschi circostanti, passando ore a raccogliere erbe aromatiche e funghi nascosti. Vengono considerate attività di contorno, ma in realtà sono un aspetto fondamentale per poter selezionare e conoscere la materia prima in maniera accurata.
Nella ristorazione di alto livello hai fatto varie esperienze. Cosa ti ha colpito di queste realtà?
A La Peca dei Portinari sono rimasto per uno stage di soli cinque mesi, subito dopo aver conseguito il diploma all'Alma nel 2013. Era la prima volta che mi trovavo in un ambiente professionale, a contatto con una brigata. Nei primi tempi mi sentivo disorientato di fronte a una cucina quasi "molecolare", completamente diversa rispetto a quella a cui ero abituato. È stato però un inizio di carriera positivo e incoraggiante, grazie alla famiglia Portinari che mi ha accolto come fossi un figlio.
Poi sei volato in Francia.
Sempre a Roanne ho lavorato a La Colline du Colombier, ristorante della prestigiosa maison Troisgros. Altra esperienza fondamentale in cui mi sono confrontato con dei grandi chef.
Lì come ti sei trovato?
Ho dovuto iniziare tutto da capo: è stato come tornare a scuola. Riassumerei le mie prime impressioni sullo standard qualitativo dei Troisgros con le parole rigore, precisione ed eleganza. Michel e Cèsar, padre e figlio, avevano lo stesso modo di imporre regole per ottenere dalla brigata la perfezione assoluta. Dopo aver capito e assimilato la struttura di una cucina del genere, si è pronti per raggiungere qualsiasi altro obiettivo.
Parlando di obiettivi, su cosa stai lavorando per dare un taglio personale al menù di Marzapane?
Mi interessa soprattutto sperimentare con le cotture. Ho iniziato ad approfondire questo aspetto sempre in Francia, al Cafè Sillon, esempio di bistronomia parigina esportata a Lione. Lì lo chef Rostaing-Tayard mi ha trasmesso questa passione per la cottura alla brace, le affumicature e l'utilizzo dell'aceto in preparazione. Tutti elementi che oggi mi aiutano nella creazione dei piatti nuovi. Qui a Marzapane, però, sto utilizzando soprattutto tecniche apprese durante il mio viaggio in Giappone.
Quali?
Prima fra tutte la cottura al kamado, barbecue in ceramica che mi consente di controllare il flusso d'aria che entra a contatto con il cibo. Questo metodo si adatta benissimo sia alla carne che al pesce e dà ottimi risultati, ricorrendo anche a temperature estremamente diverse fra loro. Utilizzo spesso la cottura al vapore, di grande leggerezza, ma anche le fritture di tempura. Ho imparato a padroneggiarle attraverso l'osservazione dello chef Yuki Iwai e il maestro del sushi Yoshiharu Doi, che ho conosciuto in Giappone.
Come riesci a coniugare questa impostazione giapponese con la tradizione italiana?
In realtà non c'è mai una divisione netta fra i due aspetti quando si lavora ai fornelli. Mi avvalgo di una tecnica precisa e pulita che si ispira alla cucina asiatica, ma il cibo che propongo esprime la tipicità del gusto italiano. Ho a disposizione tagli di carne e pesci del territorio, spesso poco conosciuti, mi ispiro alla tradizione italiana, studiando continuamente le ricette radicate nella nostra cultura. E sono particolarmente attento ai condimenti.
Anche i condimenti sono un mezzo per sperimentare?
Assolutamente sì. Faccio sempre prove con oli differenti per trovare quello che si adatta meglio alla pietanza. Poi riservo grande attenzione alla scelta degli aceti, perché voglio che il tocco di acidità non sia conferito sempre e solo dagli agrumi. Utilizziamo molti prodotti dell'Acetaia San Giacomo di Reggio Emilia. Ogni giorno scopriamo ingredienti inaspettati che si prestano ad abbinamenti giocati sul gusto acidulo e infusioni con l'acqua acetica. Detto questo, gli agrumi rimangono un punto fermo. Ad esempio, adoro il limone Meyer, di origini cino-americane, che ha un'ottima consistenza e un profumo esplosivo.
Un piatto in menù di cui sei particolarmente orgoglioso?
Forse il manzo, su cui ho studiato molto. Ho scelto la punta di petto, utilizzata solitamente nelle lunghe cotture come il pastrami e il brisket. Volevo evitare di stracuocerlo, in modo che arrivasse a tavola al sangue. Abbiamo quindi pensato di sottoporlo a due mesi di frollatura, cui seguono 1-2 giorni di salamoia. Questa affinatura concentra i succhi e rende la fibra più asciutta e tenera: possiamo tagliare la carne al momento, scottarla sulla griglia e servirla proprio al sangue.
Cosa ti piace della ristorazione di Marzapane?
Oltre alla cucina c'è un servizio di qualità. In sala si ammorbidisce quell'impostazione rigida e schematica che troppo spesso crea difficoltà al cliente. I camerieri trasmettono sintonia sin da subito grazie a un'accoglienza familiare. Un sorriso in più, la voglia di raccontare il nostro background rendendolo comprensibile a tutti, la cucina visibile dalle vetrate. Dettagli che fanno di un ristorante un luogo in cui ci si sente a proprio agio. Agli ospiti piace vedere come componiamo il dessert e facciamo il pane mentre loro mangiano. È interazione.
Un'ultima domanda. Quando non cucini, c'è un piatto che ami farti preparare?
Sicuramente la Genovese che fa mia madre. È un piatto tipico napoletano a base di vitello. La carne, stracotta con cipolla e carote, viene usata come condimento della candela spezzata, un formato di pasta locale. Ho inserito questo classico rivisitato nel menù di Marzapane, cercando di restituire agli ospiti quei sapori di forte impatto. Spero che vengano apprezzati come faccio io da sempre.
Marzapane – Roma – via Velletri, 39 – 0664781692 - marzapaneroma.com
a cura di Lucia Facchini
Allieva del Master in Giornalismo Comunicazione e Critica Enogastronomica del Gambero Rosso