Stasera si gusterà un petit four allo Chanel N°5 o un’anatra confit al Dior Sauvage? L’importante è non incappare in un risottino al Lancôme La vie est belle ché la vita sarà anche meravigliosa, ma sborsare centinaia di euro per una cena stellata per poi venire travolti dall’insolito profumo abbondantemente emanato dai commensali del tavolo di fianco (o, peggio ancora, del proprio) non è esattamente una delizia. Quella dell’inquinamento olfattivo al ristorante è questione poco discussa e segnalata e che non riguarda affatto solo l’haute cuisine. Pure una pizza al Gucci Bloom nella trattoria sotto casa la evitiamo volentieri: ridatici la Margherita, con il suo aroma di basilico e pummarola e di pasta biscottata al punto giusto.
Il gusto passa dal naso
Basta avere un raffreddore per capirlo, ma la scienza va oltre e ci spiega come fino all’80% dei sapori percepiti quando di mangia viene dal senso dell’olfatto. Le papille gustative infatti sono in grado di rilevare i gusti di base: dolce, salato, acido, amaro e umami. Ma le centinaia di sfumature d’aroma che rendono un piatto un grande piatto arrivano dai recettori del naso. Seguendo due direzioni: dall’interno salendo dalla bocca e dall’esterno con la respirazione. E qui iniziano i problemi, o le interferenze. La questione è ben nota ai ristoratori che ormai la usano a proprio vantaggio. Pioniere fu Heston Blumenthal ad esempio che iniziò a nebulizzare essenze sul piatto al momento del servizio, aggiungendo una nota in più tutt’altro che ininfluente anche se di un ingrediente che nel piatto di fatto non esiste.
Bandire o non bandire? Qui sta il problema
Un conto però sono le fragranze attentamente selezionate dallo chef, ben altro sono quelle propinati dal vicino di tavolo. L’interferenza riguarda soprattutto gli aromi più sottili e recessivi come quello del pesce fresco. Così alcuni ristoratori, a iniziare proprio, ebbene sì, dall’altissima cucina, sono partiti alla riscossa chiedendo agli ospiti in fase di prenotazione di astenersi da presentarsi in ciabatte e short ma anche di indossare profumi. Così al dress code si sarebbe aggiunto lo smell code.
Secondo il quotidiano olandese Het Parool il ristorante Toscanini di Amsterdam insieme alla conferma della prenotazione manda una mail che recita: «Vorremmo che tutti i nostri ospiti avessero un'esperienza fantastica, ma a volte questa è ostacolata dall'uso eccessivo di profumi. Pertanto, vi chiediamo gentilmente di tenere conto di questo aspetto utilizzando il profumo in modo più discreto». L’anno scorso ha fatto notizia lo stellato londinese Sushi Kanesaka, un tempio della cucina giapponese dove chef Shinji Kanesaka «serve il sushi nello stile Edomae, la sua forma più tradizionale, in cui il pesce viene stagionato per lasciare che i sapori intrinsechi risplendano e che le delicate note umami nascoste nella carne vengano rivelate». Il tutto, per l’omakasé da 18 portate, a 420 sterline, circa 500 euro a testa.
Lo "smell code" non compare sul sito. Dall’ufficio stampa del gruppo Dorchester però ora assicurano che «non abbiamo una politica che chiede agli ospiti di astenersi dall'indossare profumi in nessuno dei ristoranti dei nostri hotel. Da Sushi Kanesaka il nostro consiglio agli ospiti di optare per una fragranza più leggera o addirittura di rinunciarvi del tutto era volto a consentire ai loro sensi di entrare pienamente in contatto con i profumi delicati che emanano dal nostro sushi e che completano l'esperienza culinaria complessiva». Ma, sottolineano, era un consiglio, non è mai stata un’imposizione. Sembra di camminare sui gusci d’uovo. E invero è assai difficile trovare un sito di ristorante che espliciti il divieto è pressoché impossibile. quanto meno in Occidente. Tanto che il suggerimento di «si prega di non indossare profumi, acqua di colonia o altre fragranze forti. Si prega di informare gli accompagnatori» è riportato nelle regole di prenotazione della casa madre di Sushi Kanesaka, a Tokyo
Il tema dunque è spinoso e sfocia nel tabù: forse perché la propria sfera olfattiva, che coinvolge il più oscuro, negletto, dimenticato ma ancora oggi probabilmente più potente tra i sensi, è un ambito talmente personale da non poter essere nominato. Il profumo per alcuni è un modo per sentirsi più attraenti o semplicemente sicuri di sé e a proprio agio in pubblico, tanto più in un primo appuntamento per una cena tête-à-tête.
Non solo questione di gusto
La questione del profumo però è più seria e riguarda anche il tema delle allergie e della salubrità dell’ambiente di lavoro. Un fatto che però, lato clienti, non sembra sufficiente a esplicitare un vero e proprio divieto. Altra cosa sono le politiche verso i dipendenti, cui viene spesso consigliato di evitare fragranze invasive. Da Osteria Francescana ci informano che il team di sala e di cucina del ristorante è invitato a non indossare profumi per non alterare l’esperienza degli ospiti, per quanto riguarda la sala, e la propria sensibilità olfattiva, per quanto riguarda la cucina. Il look smart casual consigliato nel dress code per gli ospiti invece non comprende suggerimenti per l’utilizzo di profumi, essenze o altro. La scelta sul proprio profilo olfattivo è quindi interamente a discrezione dell’ospite.
Insomma il profumo eccessivo dà noia ma non si dice. Prima di entrare in un ristorante però, annusatevi. Se sentite solo profumo, non chiedetevi se quelli del tavolo vicino vi guardano in tralice: sì, ce l’hanno proprio con voi. Perché se è vero che il cliente ha sempre ragione, e non va toccato nel suo più profondo, è anche vero che i clienti sono tanti, non siamo isole nel vuoto siderale e influenziamo l’ambiente circostante con le nostre molecole odorifere. Nel dubbio, meglio tornare a casa a farsi una doccia.