Ci sono i quattro ristoranti di Borghese. E c’è il ristorante borghese. Quello in cui stare bene, sentirsi trattati da signori – e quindi sentirsi un po’ signori - magari con un pianoforte che suona là in fondo. Un locale che non rinuncia però alla sintassi del fine dining: categoria che non se la passerà bene, come tutti dicono, ma qualcosa avrà pur sempre insegnato al mondo della ristorazione.
L'apertura del 2024
Il ristorante borghese (magari anche alto-borghese) sta tornando di moda. Ci pensavo mangiando a Milano da Procaccini (al numero 33 dell’omonima via, in zona Sempione), una delle aperture che ha fatto più scalpore nel 2024 milanese un po’ avaro di soddisfazioni gourmet. Aperto con qualche rombo di grancassa in tarda primavera – c’erano pure le pubblicità sui tram, il più borghese dei mezzi di trasporto pubblico di Milano – si è dimostrato all’altezza delle aspettative: uno standard elevato di cucina e servizio, preciso e composto, senza gli eccessi anni Ottanta di cui Milano si va riempiendo negli ultimi tempi.
28 anni
In cucina domina il ventottenne Emin Haziri, origini kosovare e un passato alla corte di Antonino Cannavacciuolo, al cui bistrot torinese (chiuso qualche tempo fa) aveva portato la stella. Haziri ha lo sguardo del predestinato, è serio e concentrato, ha negli occhi quel lampo di chi sta per fare la giocata decisiva e dietro questo cipiglio secondo me nasconde una leggerezza e un senso dell’ironia che emergeranno con il tempo, assieme a qualche sorriso, di cui in compenso largheggia il personale in sala. La sua cucina volge tutti gli sforzi verso un sapore forte e definito, e per questo ogni piatto contiene pochi elementi bene assortiti e tutti di alto livello. Mi convince in particolare la sua capacità di far dialogare ingredienti nobili e ingredienti plebei dando a tutti la giusta ribalta, secondo un’idea di lusso (parole sue) che “è poter seguire incondizionata il ritmo della natura e ricercare il meglio sul territorio”.
Il bancone come una chef's table
Ho cenato al bancone affacciato sulla bella cucina a vista in cui volteggia una brigata ben giovane, che diventa così una vera chef’s table, e ho vissuto una serie di episodi interessanti. Sono partito con quattro snack tra i quali ho particolarmente apprezzato il Sandwich con sgombro e senape e la Crocchetta di baccalà mantecato con menta. Poi un Gambero rosso di Mazara con mandorle, limone salato e crema di mandorle, lo Scampo di Mazara su insalatina di fave e piselli con la sua bisque, un Gambero di Mazara (con la testa fritta) e bisque al dragoncello e una Capasanta cruda con wagyu, scarola riccia e maionese di bottarga. La serie è chiusa da un vasetto con un fiore, che “cresce” in una spuma di patate, funghi porcini, nasturzio e cardoncello saltato, un piatto soave e strappa-sorrisi, ciò che certo non guasta.
Puntare sulla pasta
Bisognerebbe parlare poi della disaffezione di molti chef di vaglia per la pasta, forse considerata troppo poco elegante per chi voglia apparire à-la-page. Di certo Haziri non appartiene a questa schiera, e manda in campo, di seguito, dei notevoli Ravioli di anatra, foie gras e lampone, poi la Linguina con salsa champagne con teste di aragosta, funghi champignon, levistico e panna che si candida a diventare un piatto bandiera e infine lo Spaghetto con lumachine di mare, wakame e pepe di Sichuan, che gioca su un equilibrio complesso. Segue un Baccalà con la sua trippa, limone salato, nasturzio e salsa di concentrato di cipolle arrosto. I dolci sono affidati alla brava Anna Ruotolo: dapprima un Crumble al basilico con melone e aceto balsamico, poi una Banana in varie consistenze (cotta nel caramello, cremoso, chips) con miso e bergamotto e infine un Babà che rende omaggio alle origini campane della pastry chef: la bagna è alle spezie e passion fruit e c’è anche una crema di vaniglia. Tutto questo ben di dio corrisponde ai menu Il Viaggio dello chef, il più completo e impegnativo anche da un punto di vista economico (165 euro). Chi vuole volare basso può optare per il Classico (135) e per i Vegetariano (110), proposta questa sulla quale lo chef mi confessa di puntare molto. C’è anche una carta che sciorina i piatti delle varie carte, oltre a una selezione di crudité e di caviale.
Anni Cinquanta-Sessanta
Non tutto è perfetto e del resto il locale ha ancora pochi mesi di vita e una lunga strada davanti ma le ambizioni sono considerevoli e con ragione. La brigata è ricca, quattordici persone che si alternano e che volteggiano nella cucina non enorme ma ben organizzata, ognuno sembra sapere perfettamente cosa fare. Il locale è stato disegnato dall’architetto Alberto Baronio e dall’interior designer Andrea Raso: è elegante, ispirato a quel decoro dell’Italia che negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso prendeva a familiarizzare con il benessere e che sentiva di meritarsi qualche tocco di lusso. Un posto che fondamentalmente si propone di fare uscire il cliente più felice di quando è entrato. Bravo mi è parso anche il sommelier Edoardo, che con qualche tocco di spettacolo governa una carta da ampliare ma già interessante.