“La retorica della vita bucolica inganna i consumatori”. Storia della casara che vuole "uccidere" Heidi

19 Mar 2025, 09:11 | a cura di
Irene Piazza voleva fare l’insegnante. Oggi è una delle artigiane più consapevoli, orgogliosa del proprio ruolo sociale e del suo nuovo progetto agricolo

Irene Piazza si è fatta conoscere al piccolo grande mondo dell’enogastronomia quando faceva i formaggi dell’Azienda Agricola Foradori, un pezzo di storia della viticoltura biodinamica italiana. È stata accolta in Trentino dalla signora del Teroldego, Elisabetta Foradori, che le aveva affidato la gestione del proprio allevamento per la produzione casearia. Col tempo le strade si sono divise: «La considero un’esperienza formativa in cui ho conosciuto più da vicino il mondo del vino».

La casara originaria del Bellunese sognava che le vacche fossero il cuore di una sua attività e che i vitelli non venissero sottratti alle madri nei mesi di svezzamento: «Per chi fa il latte è pratica diffusa quella di levare “subito” i vitelli e venderli a chi produce carne».

Dove è finita Irene Piazza?

E così Piazza ha trovato una nuova casa, continua a fare degli ottimi formaggi, sia a latte vaccino che caprino. Una scoperta fatta dopo aver assaggiato in una bottega romana una delle sue prelibatezze: Bigio, la robiola affinata con carbone vegetale. Solo che, tra vigne e mele, i prezzi più che elevati per l’acquisto di un terreno in Trentino l’hanno indirizzata altrove.

Nella ricerca ha incontrato in provincia di Vicenza Massimo Brotto dell’Agricola Sermondi, che «voleva una consulenza per ripensare e ristrutturare il caseificio. Lì abbiamo scoperto una realtà biologica già a ciclo chiuso, qualcosa cui noi aspiravamo. Sessanta ettari con mulino, stalle e, appunto, un caseificio in cui prima lavoravano i fondatori, ora morti. Il posto, senza forza lavoro, richiedeva un ricambio generazionale e così ci siamo accordati per unire le forze. Da qui è nata la nostra Selma Agricola Sermondi».

Irene parla al plurale. Si è trasferita sui Colli Berici insieme a una parte della squadra di Foradori portandosi dietro pure le mucche di Grigio Alpina che aveva accudito ai piedi delle Dolomiti.

Irene Piazza

Lo stile di Selma Agricola Sermondi

Ad eccezione di Massimo, che si dedica a farine e lievitazioni, quello di Selma Agricola è un team di sole donne: Anna Sarcletti (ex Remulass), Matilde Giani, Anna Libori, Federica Lucchi e, chiaramente, Irene Piazza. Ognuna con dei compiti ben definiti, perché ciascuna di loro ha acquisito negli anni competenze diverse, ma tutte pronte a darsi una mano all’insegna della solidarietà e di quello spirito di coesione che qui non può mai mancare. C’è pure chi, oltre all’orticoltura in stile Market Garden, si occupa della raccolta stagionale di erbe aromatiche spontanee per la preparazione di Kombricola, la kombucha della casa.

Il fulcro dell’attività agroecologica di Selma, dal nome della vacca più sensibile e produttiva, resta comunque la trasformazione lattiero-casearia. Un lavoro che viene portato avanti con idee chiare e principi solidi, sempre nel rispetto di quanto offre la materia di partenza e rifiutando di omologarne il sapore.

«È dagli inizi che impiego latte crudo per fare formaggio. Un corpo vivo, dato da cariche batteriche naturali che perderemmo con la pastorizzazione. Senza i batteri lattici rappresentativi si ha un impoverimento nutrizionale e organolettico. Il latte diventerebbe una tela bianca priva di identità, uguale al resto dei prodotti in commercio. E così, a discapito di qualsiasi sforzo in stalla, faremmo solo un favore alla grande industria, mettendo a rischio la nostra realtà, visto che con il prezzo non saremmo altrettanto competitivi».

A parlare con la malgara bellunese sembra che in Italia non ci sia piena consapevolezza della tradizione casearia: «Non possiamo circoscrivere il dibattito al latte crudo. Si parla poco del lattoinnesto (una coltura starter naturale che favorisce la coagulazione delle proteine), fondamentale per la buona riuscita del formaggio. È cultura popolare pure questo, non solo il lievito madre. Strano che non si conosca. Mentre ormai sono in molti a sapere cosa siano i solfiti del vino».

Anna Sarcletti

Uccidere Heidi

Dagli allevamenti di Grigio Alpina e capre camosciate deriva anche la carne. Una microfiliera che implica la macellazione di soli maschi adulti. Irene Piazza si dice assolutamente contraria alla mattanza pasquale dei capretti: «Qua non si macellano cuccioli. Si procede con un bovino adulto alla volta perché ci si mangia in più persone, evitando qualsiasi sovraccarico o spreco. Il benessere animale per cui ci si batte ora passa perfino dalla qualità della morte».

Vorrebbe poi che alcuni capissero che la vita rurale non è tutta rose e fiori. Risulta più dura di quello che sembra: «Dopo 2 anni devo ammazzare un vitello che ho abbracciato sin dalla nascita. Non c’è freddo o caldo che tengano; quando arriva il momento dell’alpeggio ci si carica i paletti sulla schiena e si va, senza potersi tirare indietro. La realtà agricola è complessa e richiede studio e competenze. Noi, per esempio, siamo tutte laureate: chi in scienze gastronomiche, chi in veterinaria».

Con ironia, la trentunenne chiama questo approccio olistico «Uccidere Heidi», in antitesi alla retorica che evoca un immaginario illusorio e romanzato del mondo bucolico. Contesta dunque il ritratto ameno che fa leva sulla bellezza della natura e sul fascino dell’atmosfera montana: «Il rischio è che sembri tutto molto Heidi (la bambina del famoso cartone animato protagonista dello scenario incontaminato delle Alpi Svizzere). Una rappresentazione ingannevole che induce il consumatore ad acquistare e qualcuno invece a trasferirsi dalla città, ignaro dei sacrifici quotidiani che sarà costretto a fare».

Simile spirito critico alimenta la convinzione che mangiare formaggio a latte crudo sia «un atto politico». E pensare che da piccola Irene voleva fare l'insegnante. È bastata un'allergia al fieno per tenerla lontana dalla stalla di famiglia fino a 16 anni, età in cui si avvicina invece alla lavorazione del latte. Adesso è contenta di fare da mangiare per le persone e trae assoluta gratificazione dal ruolo sociale che le riconoscono. Come se fosse diventata casara per vocazione.

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