Dopo l’annuncio del ritiro di Pete Wells come critico gastronomico del New York Times quasi un mese fa, il giornalista torna a scrivere sulle stesse colonne, e sempre di ristoranti. Questa volta si concentra sull’avanzata delle tecnologie touch screen e a prova di click nei ristoranti. Di recente infatti, negli Stati Uniti, una nota app ha introdotto un nuovo metodo di pagamento all'interno dei locali: basta effettuare il check-in all’arrivo, selezionare il metodo di pagamento e la percentuale di mancia, poi godersi il pasto. Al termine, semplicemente ci si alza e si esce, senza dover chiedere il conto. Se da un lato questo accelera l'esperienza al ristorante, riduce momenti di imbarazzo tra il cliente e il personale (succede, ad esempio, quando ci viene detto che non c'è posto per prenotare) e le discussioni su chi paga il conto, dall’altro solleva preoccupazioni su come la tecnologia stia spogliando i ristoranti della loro umanità.
Ai ristoranti non servono più i rapporti umani?
Dopo dodici anni trascorsi a recensire ristoranti, Pete Wells si trova a riflettere su come i cambiamenti tecnologici abbiano gradualmente trasformato l’esperienza del mangiare fuori casa. Se prima i ristoranti erano luogo di interazioni umane genuine, ora stanno diventando sempre più simili a distributori automatici con sedie. La tecnologia ha reso molti aspetti della nostra vita più efficienti e convenienti, ma a un costo: «Quando andavamo a mangiare fuori, eravamo di nuovo persone», scrive Wells, ricordando la bellezza che c'è nell'interagire direttamente con il personale del ristorante, dal momento in cui si entra, fino alle chiacchiere con il proprietario, il barista, il cameriere, per un’esperienza autentica e partecipativa. Oggi, invece, molte delle interazioni che un tempo avvenivano tra esseri umani sono state sostituite da schermi e app. Ordinare un hamburger o una birra può essere fatto con pochi tocchi tramite uno smartphone o tablet, mentre le prenotazioni si effettuano ormai esclusivamente online con le piattaforme di delivery.
La proliferazione delle «cucine fantasma», ristoranti virtuali che esistono solo per le consegne a domicilio, contribuisce ulteriormente a questo senso di disconnessione. Wells si pone la domanda: «Sto sostenendo un imprenditore locale o sto arricchendo una startup?». Anche l’ordinazione di cibo da asporto ha subito una trasformazione radicale. In passato, bastava chiamare il ristorante di fiducia per ricevere il cibo a casa, o si andavano a cercare i foglietti nel portafoglio che contenevano il bigliettino con il numero di un ristorante in cui si era stati o che si conosceva già bene; ora, spiega il critico del NYT, molte volte non si sa nemmeno da dove provenga il pasto ordinato, né chi lo abbia cucinato, ma si dà fiducia alla foto sulle piattaforme delivery che sembra più allettante (e non di rado ci sono cattive sorprese all’arrivo).
Esperienze impersonali al ristorante
La pandemia ha accelerato l’adozione di queste tecnologie. Durante l'emergenza sanitaria, limitare il contatto umano aveva una logica incontestabile; tuttavia, l’uso della tecnologia per mantenere il distanziamento sociale è rimasto anche dopo il ritorno alla normalità. Come osserva anche Wells, questo ha portato a un aumento del comportamento scorretto da parte dei clienti, che sembrano aspettarsi che il personale di un ristorante sia altrettanto veloce e accomodante quanto un touch screen. Persino i ristoranti di lusso, dove la cura e l’attenzione tra sala e cliente è caratterizzante, «stanno diventando sempre più impersonali». I pranzi o le cene di degustazione, che hanno dominato la ristorazione di alto livello negli ultimi anni, spesso si rivelano esperienze intercambiabili (e interminabili), dove i clienti seguono un copione prestabilito e ricevono ognuno lo stesso trattamento: «Se è il tuo compleanno riceverai lo stesso dessert che tutti gli altri stanno mangiando, con una candela infilata dentro», scrive provocante il critico.
Il monito del critico enogastronomico
Ultimo tema che tocca Wells è quello della moda spassionata per la fotogenicità dei piatti. Le persone vanno nei ristoranti non tanto per godersi il cibo, ma per poter postare una foto su Instagram, dimostrando di essere stati lì, e, per quanto riguarda il gusto, questo diventa secondario rispetto alla prova visiva della presenza in quel ristorante, mentre si mangiano quelle cose. E conclude: «Non tutti i ristoranti devono offrire un’esperienza emotiva intensa», ammette Wells. Vari ristoranti di street food, dove si paga prima di mangiare e poi si ritira il cibo, sono un esempio di come un servizio veloce possa funzionare bene, perché basta un semplice "ciao", "grazie", "arrivederci". Quel qualcosa in più spesso deriva dalle piccole interazioni, come i sorrisi, le battute o i consigli di chi è dall'altra parte dell'ordine.
La tecnologia ha reso i pasti più veloci ed economici, ma ha anche privato le persone di qualcosa di essenziale, il contatto umano. Il rischio, conclude il critico, «è che i ristoranti diventino luoghi dove non siamo più in grado di connetterci con gli altri, dove il cibo è solo un'altra transazione, priva di significato. E quando arriva il momento di andarsene, la sensazione di vuoto è più forte, al punto che anche dare il cinque al proprietario sembra un gesto vuoto e senza senso». Forse, l’ultima parabola di Pete Wells è un monito a ripensare a cosa cerchiamo veramente quando andiamo a mangiare fuori. Non solo cibo, ma connessione, umanità e il semplice piacere di stare insieme.