"Drink analcolici? Nei cocktail bar devono essere la normalità". Intervista a Patrick Pistolesi, uno dei più bravi barman del mondo

11 Set 2024, 14:58 | a cura di
Intervista a 360° a Patrick Pistolesi: dai “low e no alcol” fino al nuovo ruolo delle donne. "Non possiamo stigmatizzare chi non beve"

Patrick Pistolesi, è uno dei più bravi barman d'Italia e del mondo (alla posizione numero 21 della classifica dei World 50 Best Bar) ci racconta come deve essere (per lui) un cocktail bar. Il segreto? «Avere una proposta sexy per ogni esigenza».

Cosa ne pensa dei mocktail e dei drink low alcol?

Il discorso è interessante ma l'offerta dei drink senza alcol si deve integrare al 100% con il resto del bar, deve essere la normalità di qualsiasi locale, anche perché il bar deve essere fruibile a tutti, è troppo importante lavorare su questo, senza stigmatizzare chi non beve, magari con la tipica battuta: «C'è qualcosa che non va?». Invece bisogna cominciare a stimolare anche quel tipo di pubblico che non vuole bere alcol ma vuole vivere comunque la socialità del bar socialmente. Da barman dico che bisogna gestire la cosa e avere una proposta sexy per tutti.

Foto: Alberto Blasetti

Non è migliorata l'offerta dei drink analcolici?

Molto, prima prendevi dei succhi, mettevi degli sciroppi, e la cosa finiva lì. Ora le possibilità sono infinite, facciamo dei cordiali incredibili con mango basilico pepe rosa, un buon sodato con un buon ghiaccio nel bicchiere. Dobbiamo fare drink per il sapore e per il grado alcolico, ma c'è una fetta di clienti che non beve alcol e non si tratta di bambini, e bisogna avere un'offerta valida anche per loro.

Invece i drink low alcol?

Quelli fanno parte della nostra cultura, gli italiani li hanno inventati negli aperitivi, come lo Spritz.

Come si relaziona un grande barman al mondo del vino?

Per noi il vino è sempre stato un fiore all'occhiello, fa parte della nostra cultura, il nostro general manager – Lorenzo Mancuso – è un grande sommelier, noi amiamo servirlo, abbiamo dei calici speciali... i dettagli sono tutto. Anche se di solito non si associa il vino ai cocktail bar, hanno due immaginari molto diversi.

Che intende?

Il vino è spesso legato a un'idea più bucolica, soprattutto quando si parla di vini naturali, si pensa alla vigna, al verde, al tagliere di formaggi, mentre i cocktail bar si legano a uno scenario diverso, più sofisticato, con un ambiente più particolare e sexy.

E sono mondi che si possono incontrare nello stesso bicchiere oppure in Italia è impossibile fare cocktail con il vino?

In realtà sono sempre a braccetto: alcuni drink classici hanno una base vino, come il New York Sour o il whisky sour con vino rosso, lo Spritz e i cocktail con lo Champagne.

Uscendo dai classici?

Non è impossibile, bisogna sapere come usarlo perché il vino è un prodotto sacro per noi, in Italia già si storce il naso se metti due cubetti di ghiaccio. Io credo sia giusto proteggere ma anche sperimentare.

In che modo?

Line di Atene,produce il suo vino, prende gli ingredienti, pesche, ananas, lime, li fermenta e li fa diventare vino. A parte questo, comunque, i vini naturali stanno entrando nel mondo dei bar, noi li usiamo, anche se non credo che sia il core business di altri bar.

Un Negroni da Drink Kong a Roma

Il vostro è uno dei cocktail bar più importanti al mondo, attualmente. Cosa ha di particolare?

Mi vanto di aver rotto la linea degli speakesay: a un certo punto in Italia c'erano solo speakeasy e barman con i baffoni, ma per me a parte era un format esaurito, se si esclude il Jerry Thomas che è l'unico autentico, un posto vero che ha cambiato le sorti della miscelazione in Italia e nel mondo.

Lo stile speakeasy non faceva per me: volevo una cosa grande, importante, con le porte aperte, che facesse capire cosa è la storia del bar. Il frutto di 20 anni di lavoro.

È stato un azzardo?

Tutti mi dicevano che ero matto ad aprire un posto così grande, che non sarei mai riuscito a riempirlo. Venivamo dalla cocktail evolution, escludente, dagli speakeasy e io aprivo un posto di 300mq, pop, aperto a tutti.

È andata bene, ed è diventato un nuovo standard

Posso riconoscere un po' di Kong in un neon, in un menu e ne sono lusingato, sono contento di aver fatto parte di una rivoluzione che non è solo mia ma di tante persone della mia generazione. Comincio a dire che sono vecchio.

Quale è la formula giusta?

Difficile da dire, io credo nei bar autentici, l'autenticità non passerà mai di moda. Devi rimanere nel tuo territorio, essere fedele a te stesso. E il cliente deve capire che locale è. Bisogna stare attenti ai format, capire in che territorio ti vai a mettere.... Ci sono dei grandi temi, come il Tiki per esempio, posso anche capire se apri un locale alla Grande Gatsby, ma per altri locali a tema non so che cosa dirti, non lo farei mai, non mi metterei ad aprire un locale ispirato al sottomarino, per dire.

Eppure Nite Kong ha un'ispirazione precisa

Sì, richiama i night degli anni '70, quel mondo della notte, la sofisticatezza dei drink, anche questi sono grandi temi.

Foto: Alberto Blasetti

Pare che i grandi cocktail bar oggi abbiamo tutti la loro private room, il Drink Kong ha da sempre la sala giapponese

La sala giapponese 6 anni fa è stata il passepartout per il bancone, il posto in cui spiegavo i 5 gusti, facevo capire alle persone cosa piace o non piace, almeno spero. Da lì si è evoluta, ci sono state le con degustazioni di whisky, particolari, anche molto antichi. Ma all'inizio serviva come Kong per sensibilizzare le persone e introdurre al mondo dei cocktail bar.

Al Drink Kong una parte di esperienza è legata alla drink list, da sempre un lavoro molto concettuale

Ho sempre detto che non volevo dare una lista di drink da cui scegliere, ma dare il senso con poche informazioni basilari che servono per non far perdere l'orientamento, poi cercare di fare interpretare il senso. Lavoriamo da sempre con Alessandro Gianvenuti di studio Lord Z che riesce a interpretare anche assaggiando. Il nuovo menu si chiama Perimetro e Forma, è un omaggio al Maestro Takenobu Igarashi e più in generale al design e alla grafica giapponese.

A volte mette in difficoltà i clienti meno scafati che non sanno che ordinare. Cosa suggerite?

Quando uno viene da me, lo incoraggio a ordinare i grandi classici, credo che il barman debba fare quello, i drink classici non moriranno mai, c'è un grande fermento ma bisogna conoscere quelle basi per andare avanti, anche se sono innamorato della sperimentazione.

Non siete legati a nessun marchio in particolare, come mai?

Sono fortunato che lavoro con tantissimi brand che mi piacciono, ma con nessuno in particolare, anche perché sono un barman maturo e ho una mia credibilità, per me si possono fare cose belle facendo cobranding. Ma chi non ha questa esperienza, il brand li aiuta in determinate maniere. Dipende a che grado ti metti in casa il brand, dall'esclusiva o meno.

C'è anche chi non ha alcuna etichetta in mostra.

Penso a ZEST a Seoul o Elementary a Londra, locali bellissimi e hanno fatto una scelta, che dice tante cose, sia sul tipo di miscelazione, per esempio nei locali piccoli con una proposta fine dining molto precisa e un rapporto intimo con il cliente,sia dal punto di vista politico perché non esporre brand significa qualcosa. Con le grandi aziende, il tipo di business che fai è una dichiarazione molto chiara, ci sono tantissimi sotto testi. Non si tratta solo di fare prebatch.

Cosa significa?

Ci sono tanti barman che credono nella loro indipendenza totale, fanno il loro lavoro senza collaborare, magari comprano dei prodotti e fanno le loro cose senza mettere in mostra i marchi, cosa che rispetto tantissimo, non è solo una tendenza.

Foto: Alberto Blasetti

Ma il mondo dei barman è ancora molto maschile o le cose stanno cambiando?

Ho 46 anni, quando ho iniziato c'erano poche donne, anche ora non ce ne sono molte della mia generazione, ma ci sono le nuove leve: da Kong, per esempio, ora ci sono 5 ragazzi al bancone, tra cui Ludovica che vuole aprire il suo bar. Forse il punto è proprio questo, anche il passaggio a un locale proprio, a Roma è pieno di tante donne che hanno vinerie, ristoranti, osterie, bar. Arriverà anche il turno dei cocktail bar, come ci sono all'estero: Carina Soto Velasquez del Candelaria di Parigi, Monica Berg di Tayēr + Elementary di Londra. Ora anche in Italia stanno crescendo, si stanno formando, ma se come me parti da zero, devi trovare la forza per aprire, anni di risparmi, prestiti, ci vuole potenza. Io ho aperto a 39 anni... ero un umile barista di San Giovanni.

Qualcuna già c'è?

Penso a Eleonora De Santis da Co.So. a Roma, oppure, sempre a Roma, al Bulgari c'è Desirè Verdecchia, ha una grande esperienza e ora gestisce 3 bar importanti, poi a Londra c'è Giulia Cuccurullo al The Artesian del The Langham Hotel, in Asia c'è Grazia Di Franco che è brand ambassador, come Elena Urbani. Le più intraprendenti vanno fuori, dove possono essere trattate alla grande. Io ho investito tutto sull'italia, ma tutti dovrebbero fare un'esperienza all'estero,l'Iitalia è un paese che ti permette poco per tassazioni, burocrazia, tutto molto complicato, inoltre il mondo hospitality molto strutturato, con una sua gerarchia. L'american bar non è roba nostra, è cosa che stiamo importando e facendo crescere con la classe e lo stile dell'italia. Senza contare che la la clientela all'estero è più abituata, qui è ancora più difficile.

Non si è evoluto il panorama?

Sì, ora le persone sono più preparate, anche per il rapporto con i social ossessivo, c'è tanta divulgazione, le persone sono più preparate, sanno che significa servizio, cocktail, acqua, ghiaccio, è bellissimo fare parte del club anche grazie ai 50 Best Bar.

Questi i pro, c'è qualche contro?

Sei sotto la lente di ingrandimento, in alcuni giorni della settimana siamo costretti a fare filtro, siamo un bar giovane, proponiamo lo standing, ma alcuni vogliono il tavolo, ma è importante anche per il prezzo che pagano.

Come è la situazione del bar, dal punto di vista contrattuale?

Quando ho cominciato prendevo tutto quel che trovavo, il venerdì e sabato facevo il back e a fine serata mi davano 50mila lire, dopo 10-12 ore. Avevo talmente tanta voglia di fare questo mestiere che bastava che salivo su un bancone ero felice. Era normale fare gli extra un paio di volte a settimana ed essere pagati in nero. Una volta si faceva così: eri il ragazzo di bottega, ti insegnavano un mestiere e ti davano la mancetta. Io così ho 10 anni di buco per la pensione. Hanno stuprato quell'entusiasmo giovanile. La gente deve capire che così non si può fare, bisogna sempre tutelare i ragazzi.

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