A Roma, via Tasso è un toponimo conosciuto, che fa ancora rabbrividire chi ha buona memoria. Via Tasso 145, per la precisione, edificio utilizzato come caserma e carcere dalle SS nei mesi dell’occupazione nazista di Roma (11 settembre 1943 – 4 giugno 1944) sotto il comando del famigerato Herbert Kappler. Era il luogo dove si veniva interrogati, detenuti e torturati e da cui si poteva uscire destinati al carcere di Regina Coeli, al Tribunale di guerra (con conseguenti condanne al carcere in Germania o alla fucilazione), alla deportazione, oppure, come accadde per molti, alle Fosse Ardeatine.
Oggi in quegli stessi locali c’è il Museo storico della Liberazione, un luogo che va visitato (è a pochi passi dalla metro Manzoni) per capire cosa ha vissuto l’Italia in quegli anni. Non è l’allestimento - in sé piuttosto semplice e, forse, sorpassato - a colpire, quanto il fatto che l’ambiente sia rimasto intatto, con le celle anguste, le finestre murate, i documenti che elencano nomi e condanne con la freddezza della burocrazia. Alcuni reperti, in arrivo da altri luoghi di Roma e d’Italia, testimoniano le atrocità di quei giorni: una camicia insanguinata, carte di identità, volantini e giornali clandestini. E c’è anche un pezzo di pane, di 80 anni fa. Simbolo più potente di un proiettile.
Il pane della Resistenza
Per raccontare questo pane, una biova piemontese, occorre fare un salto indietro nel tempo. Al 19 settembre 1943, data della prima strage nazista in Italia. Accadde a Boves, provincia di Cuneo, dove si erano formate le prime unità partigiane. Pochi giorni prima, infatti, Ignazio Vian, sottotenente al deposito della Guardia di Frontiera di Boves, era salito sulle montagne, formando una squadra di 150 uomini: era uno di quegli ufficiali che, all’indomani dell'armistizio dell'8 settembre, decisero che fosse giunta l’ora di combattere contro i tedeschi.
A Boves, in tre rastrellamenti consecutivi alla ricerca dei partigiani, i nazisti incendiarono il paese e uccisero più di 90 persone, alcune bruciate vive. Enrico Martini Mauri, alpino che raccolse un esercito di 11mila uomini (ai quali poi si unirono anche Vian e i suoi), nel suo libro “Partigiani Penne Nere” ha raccontato così i massacri di quei giorni: «Hanno ammazzato Borgna, il panettiere, perché reo di averci fatto il pane e suo figlio perché si è buttato nelle braccia del padre e sua madre perché si è lanciata per salvare il figlio».
Il 19 aprile del 1944, mentre era in missione a Torino, Ignazio Vian, incastrato da un delatore, venne arrestato. Incarcerato e torturato ogni giorno per tre mesi nella caserma di via Asti, non tradì mai i suoi compagni. Con un coccio di vetro cercò di uccidersi, tagliandosi le vene dei polsi, ma i nazisti lo scoprirono e lo curarono, per continuare a torturarlo. Sul muro della sua cella è stata ritrovata una scritta “Meglio morire che tradire”. Non solo: nella cella c'era anche una biova, il pane piemontese caratterizzato da una spaccatura centrale, che Vian utilizzò per lasciare un ultimo messaggio, prima di essere impiccato, il 22 luglio del 1944, in Corso Vinzaglio a Torino.
Un messaggio lungo 80 anni
Rieccoci a via Tasso, nel Museo storico della Liberazione: in una delle stanze del quarto piano (quello che era riservato alle donne prigioniere) campeggia una teca di vetro con un pane, una biova. La didascalia riporta poche parole “Pane di Ignazio Vian con l’ultimo saluto alla famiglia”, di fianco alla teca una cornice ricorda le motivazioni per cui Vian è stato insignito della medaglia d’oro al valore. Ci si avvicina al vetro ed è un colpo al cuore: sul pane secco si leggono ancora tutte le parole incise. Da un lato i nomi dei familiari di Vian: Nella, Toti, Teresa, Maria, Pio, Cesco, Bepi, Nina. Dall’altro l’addio tenero di quello che era solo un ragazzo di 27 anni: “Coraggio mamma”.