Overtourism e impoverimento gastronomico
Overtourism è una parola orribile ma rende bene l’idea di città invase da bermuda e infradito, da punti ristoro che si moltiplicano come funghi, quasi sempre di pessima qualità con servizio indecenti. Si è parlato molto, ad esempio, del caso di Bologna anche qui sul Gambero Rosso e, checché ne dica il suo sindaco, è una città invasa da taglieri e spritz (la cosa più lontana possibile dalla cultura bolognese) che stanno oscurando la tradizione vera. Turisti che a due passi da casa loro ignorano tutto e che in vacanza cercano come forsennati punti di interesse.
Come disse Philippe Daverio, non si capisce come si possa apprezzare un museo con decine e decine di opere in un’ora se va bene, quando ogni opera richiederebbe un tempo di contemplazione e spesso un po’ di conoscenza per apprezzarla. Ma il turismo mordi e fuggi ha i sui tempi, bisogna correre, mettere una bandiera, postarla sui social, e poi di nuovo verso un altro museo e il piatto tipico del posto cercato su Tripadvisor.
Il risultato di tutto questo è una iperattività turistica che per poche settimane fa diventare molti “esperti” di culture lontane (anche millenarie) per poi farle tornare nell’oblio appena rientrati a casa. Un turismo superficiale, approssimativo, lontano anni luce dalla conoscenza e dalla ricchezza autentica, un turismo vittima dei tempi dell’iperconnessione e della visibilità fine a se stessa. Nessun giudizio, solo una constatazione. Non ci sono rimedi, non ci sono tasse di soggiorno o numeri chiusi che tengano. Ormai il galleggiamento culturale ha pervaso anche il turismo, l’approfondimento è stato sostituito dalla superficialità, la massificazione ci ha trasformati in un grande gregge indistinto. Però le casse sembrano piene, e qualcuno (giustamente) brinda.