Quindici insegne, centoquindici ricette, sei penne e sette fotografi. È la cabala di Ostinati, un librone corpulento con la copertina ruvida e rigida come una tovaglia a quadrettoni, edito per i tipi di Slow food, in cui si parla per l’appunto di osterie.
Ostinati. Il titolo e la direzione del libro
Nelle 380 pagine per un peso complessivo di un chilo e settecentocinquanta grammi, tanto per chiarire che sugli scaffali sarebbe solo un ingombro a non considerarlo un libro di peso, si narrano storie di straordinaria ostinazione. Storie di Osti-Nati, si può leggere sillabando la parola per intero o spezzandola in due come suggerisce la copertina. Intersezioni semantiche che a spiegarle si sciuperebbero come il finale di una barzelletta spoilerato. L’idea del titolo è di Chiara Cauda, direttrice editoriale. Applausi. La curatela di Marco Bolasco ed Eugenio Signoroni, che hanno messo insieme un team di penne e di fotografi capaci di rinfrescare con una ventata di curiosità e di intelligenza (quasi) mai in posa una materia che potrebbe risultare pesta come una battuta di fassona.
La selezione degli indirizzi: fuori dai vincoli e dai falsi miti
E invece, anzi. Il racconto lungo da Cuneo a Palermo passando per molte ma non per tutte le regioni d’Italia, riesce perfettamente orizzontale, oltre il linguaggio e le logiche fruste delle guide gastronomiche e molto più goloso di una guida di viaggi, in cui nessuno dà voti e tutti – i protagonisti degli scritti, i loro ritrattisti e gli scrittori – provano a darci un taglio netto. A cominciare dai luoghi comuni che inchiodano il concetto di osteria a quella specie di all you can eat all’italiana, dove si mangia a strafottere però con quattro soldi e l’oste è come la mamma anche se ti tira il piatto appresso per la fretta.
La selezione degli indirizzi, val la pena di precisare, non è autoreferenziale. All’indice non solo i ristoratori fedelissimi della Chiocciolina, per intenderci quelli che in carta hanno solo presìdi e in sala la gigantografia di Carlin Petrini. Le tappe del viaggio che compongono il volume sono selezionate scientemente fra quelle che nel linguaggio dell’Ue si chiamerebbero lighthouse. Fari. Esempi. Roba buona, non solo da mangiare, che vale la pena di tenersi cara e consegnarla intatta a quelli che nasceranno domani e dopo. Un patrimonio fecondo di resilienza e sostenibilità. Soprattutto umana.
Chi sono gli Ostinati
Come nella morfologia della fiaba decodificata da Propp, gli osti-nati rispondono a un tipo umano con una silhouette che sbalza nitida dalle pagine come se i singoli racconti in realtà non fossero altro che i capitoli di un unico romanzo. Nel caso di specie l’oste, che spesso coincide con il cuoco, oppure si sdoppia in due o persino in tre (come nell’OsTREria Pavesi dei fratelli Giacomo, Pepe e Camillo in provincia di Piacenza), è l’eroe. Ora, non c’è favola in cui gli eroi non compiano missioni mirabolanti, che in fondo si somigliano. Così i nostri. Sordi tutti, innanzitutto, al canto delle sirene che promettono le stelle. Sufficientemente impermeabili alle lusinghe dello star system eppure consapevoli della potenza di ogni alito che esce dalla bocca di un cuoco. Sembrano approfittarne, finché dura, per fare la rivoluzione.
Come al Reis di Frassino, 271 abitanti in provincia di Cuneo, dove Juri Chiotti apparecchia il suo “cibo libero di montagna”, un pay-off che vale un programma politico. Una barrique all’ingresso amplifica e ribadisce il concetto: La tierra es de quien la trabaja. Chiaro che si parla di appartenenza, non di possesso. È lo spirito con cui Juri si occupa dell’orto, degli animali e della cucina. A mettere insieme tre mestieri in una giornata sola non è la forza sovrumana del montanino tatuato, ma una spinta meno epidermica: il senso di responsabilità sociale.
La stessa che muove i passi a La lanterna di Diogene a Bomporto (Modena) dove si coltiva l’orto, si fa l’aceto balsamico e si coltivano sensi, dissodando anche i significati delle parole. Questo fa la cooperativa sociale dove lo chef-patron Giovanni Cuocci lavora con un team di persone con patologie fisiche e mentali capaci di trasformare le afflizioni in tortelloni farciti di ricotta di capra. Ne deriva un senso di comunità che include compatta tutta la filiera dei produttori, scelti con criterio di qualità ma anche di prossimità, non per ossessione del chilometro sciocco (leggi km zero) ma per l’intramontabile intelligenza dell’economia di vicinato. E senso di responsabilità nei confronti del territorio e della Terra, che vale un sentimento religioso della Natura.
Persino quando è matrigna e butta giù tutto come ha fatto con Arquata del Tronto (Ascoli Piceno) radendo al suolo anche l’Osteria del Castello di Salvatore Bracciani. L’oste da qualche parte ha trovato la forza di disseppellire il cuore dalle macerie e insieme a quello il mantecatore Carpigiani che ha resistito a tutte le botte del terremoto, avrà cinquant’anni e ancora va che è una bellezza.
Gli ostinati e la salvaguardia della varietà animale e vegetale
Un sentimento affine a quello che ha tratto in salvo la capra monticellana e la grigia ciociara, la pecora sopravvisana e il maiale nero reatino e dei Monti Lepini. E ancora i maiali mangalitza allevati a Grotte del Castro, nel Viterbese ma originari dell’Ungheria, tutte specie selezionate da Vincenzo Mancino di Pro Loco D.O.L. di Roma (oggi sono tre i locali a marchio D.O.L. il primo a Centocelle e quelli di Pinciano e di Trastevere).
Fratello di carne (attenzione: non è detto che i due si conoscano) di Oskar Messner del Pitzock a Funès (Bolzano) l’oste-Noè delle pecore con gli occhiali – provate a sillabarne il nome in lingua indigena, se vi riesce: Villnösser Brillenschaf.
Un moto salvifico che si espande anche alla materia vegetale, vedi i fratelli Francesco e Vincenzo Montaruli, protagonisti della cucina etno-botanica di Mezza Pagnotta a Ruvo di Puglia (Bari), che si approvvigionano pressoché esclusivamente nell’incolto replicando gesti e virtute di una cucina contadina in cui riecheggia il memento della fame. Vegana per necessità, non per vezzo. In cui la tradizione – altro trait d’union di questo canto corale delle osterie – è un punto di innesco ma non d’approdo.
E presuppone un lavoro di ricerca dunque conoscenza, perché “Se non conosci non puoi scegliere, scelgono gli altri per te”, parola di Gualberto Martini dell’osteria Le frise di Artogne (Brescia).
Pagina dopo pagina, tappa dopo tappa, ecco delineato il ritratto del perfetto oste-nato, premesso che “Osti non si fa né si diventa, osti si è”. Che è un eroe ma mica fesso: il suo fine dichiarato è la felicità, non solo quella degli ospiti. Vedi la cuoca e l’oste de La Campanara a Galeata (Forlì-Cesena) un ex geometra e una ex maestra, capaci di rinunciare a posto fisso e stipendio statale per “vivere la vita facendo o cercando di fare cose belle”. Con buona pace del Checco nazionale.
Ostinati. Storie di resilienza e sostenibilità delle osterie d'Italia – Giorgia Cannarella, Greta Contardo, Barbara Giglioli, Francesca Mastrovito, Salvatore Spatafora, Tokyo Cervigni – foto: Paolo Angelini, Laura Bianchi, Andrea Di Lorenzo, Gloria Soverini, Benedetto Tarantino, Francesco Torricelli e Marco Varoli - Slow Food - 380pp. - 29€
a cura di Sonia Gioia
foto di apertura di Gloria Soverini