C'è uno chef che «entra ed esce dal carcere» a cadenza regolare ... per ritirare le verdure che gli servono in cucina. Francesco Vincenzi gioca con le parole, ma il progetto che porta avanti con convinzione e impegno da circa due anni con Franceschetta 58, il bistrot modenese della Francescana Family, anni è serissimo. Farsi coltivare verdure biologiche tra le mura di una casa di pena ha una marea di implicazioni e un impatto che va ben oltre la stagionalità, i sapori e le esigenze di un menù. Se poi questo avviene in un carcere che quattro anni fa è stato al centro delle cronache per una drammatica rivolta, la portata si accentua ulteriormente. In ballo ci sono uomini e donne, il loro riscatto, seconde opportunità di vita, libertà, un'idea di società che decide di non scartare, le persone prima di tutto. U
n lavoro che vede impegnato il gruppo di Massimo Bottura e Lara Gilmore su più fronti da tempo: «I refettori, il Tortellante, ora l'orto del carcere per la nostra dispensa, tutto si tiene e acquista un senso completo se si considerano globalmente questi progetti: il valore delle relazioni fra le persone», dice Massimo Bottura orgoglioso dell'entusiasmo con cui “i suoi ragazzi” hanno preso a cuore il nuovo progetto. «E' un investimento sul futuro. Coltivare e curare la terra per sfamarsi è la base di una società. Quando l'orto del carcere produce a pieno regime riusciamo a soddisfare fino all'80% del fabbisogno della nostra cucina - spiega chef Francesco Vincenzi mentre insieme al personale del carcere ci guida nell'orto appena preparato per l'inverno -. Poi ci sono periodi di passaggio fra una stagione e l'altra o di riposo, come questo, e allora adattiamo il nostro menù con quello che c'è implementando con altri piccoli fornitori del territorio, nell'attesa delle nuove verdure dal carcere. A volte siamo noi a fare richieste specifiche, e questo consente anche a loro di provare nuove colture. In ogni caso facciamo in modo di utilizzare tutto quello che ne esce. L'ultimo raccolto di pomodori, ad esempio, non era arrivato a maturazione per il calo brusco delle temperature, è servito per il nostro pre dessert “Sant'Anna” di fine estate. Quando sarà finita la raccolta dei cavoli e resteranno solo le foglie, raccogliamo anche quelle per fare brodi e creme. Anche da qui passa l'idea che nulla è inutile e lo scarto non esiste».
Il riscatto comincia mettendo le mani nella terra
Due donne quotidianamente si battono per questo progetto, mettendo in campo determinazione e coraggio «perché in un carcere niente è mai facile». Nicoletta Saporito è la direttrice dell' “area trattamentale” della Casa circondariale di Modena, quella sezione che mette in campo i progetti di educazione e formazione per il reintegro dei carcerati. «Lo Stato non può imporre la virtù, ma deve mettere ogni cittadino nelle condizioni di essere virtuoso - dice Nicoletta Saporito per inquadrare la sua prospettiva -. La Costituzione ci dice che l'unico scopo della pena è tendere alla rieducazione, questo progetto sull'agricoltura fa questo oltre a formare le persone coinvolte ci aiuta a scardinare i pregiudizi su queste stesse persone. Fra le varie attività di formazione professionale che abbiamo, questa è la più richiesta dai detenuti, intanto perché consente di stare fuori dalle celle, ma soprattutto perché li responsabilizza, sanno che si prendono cura di esseri viventi, le piante, e che hanno un compito da portare a termine».
Poi c'è Giovanna Del Pupo l'agronoma che da circa un anno programma l'orto e una volta alla settimana, tutti i martedì mattina, valica il muro di cinta sorvegliato. Forma i detenuti addetti all'orto e controlla che la produzione proceda. «Quando si comincia il percorso vedo arrivare uomini cupi - racconta Giovanna Del Pupo - dopo un anno hanno un volto diverso. Rifioriscono affidandosi a chi spiega loro come far sì che da un seme nasca una pianta, poi un frutto, capiscono che in fondo basta poco per generare qualcosa di buono».
In tutto questo il difficile è dato dalle risorse sempre limitate per la progettualità rieducativa, dalla burocrazia, dalle ovvie necessità di sicurezza che condizionano tutto. L'uso contingentato e controllato degli attrezzi da lavoro, sotto lo sguardo costante delle guardie che controllano anche i laccetti usati per legare le piante di pomodoro: devono essere solo di certi materiali, che si spezzano facilmente. Qui la rotazione delle colture deve tenere conto prima di tutto di una cosa: l'ombra proiettata dai muri alti e sorvegliati, che ovunque si volge lo sguardo impediscono di dimenticare anche solo per un secondo dove ci si trova.
L'incontro con Franceschetta 58
La connessione con Franceschetta58 si innesca circa due anni fa quando lo chef viene chiamato per organizzare il buffet con i prodotti del carcere in occasione di uno spettacolo dei detenuti a conclusione di un laboratorio teatrale. Ma il “tenimento agricolo” della Casa circondariale di Modena esisteva dal 2000. Tre ettari di terra strappata all'asfalto di cui due sono quelli coltivati. Dentro il rettangolo delle mura di cinta gli spazi verdi sono punteggiati da alberi che si contano sulle dita di una mano, fra cui un fico, e quasi come un simbolo, a margine delle fila delle nuove insalate appena trapiantate, una rosa solitaria sta fiorendo anche ora, in dicembre.
Fra gli edifici massicci di cemento all'interno dei quali vivono centinaia di detenuti (questo carcere ne ospita oggi circa 560, ma dovrebbe contenerne 372) e i loro guardiani, sotto le stesse finestre sbarrate delle celle da cui provengono voci ma non si vedono volti, ci sono i terreni che alcuni di loro zappano, concimano, irrigano e coltivano a ortaggi, asparagi e carciofi compresi, in regime biologico certificato. «L'obiettivo è arrivare a coltivare tutta la terra disponibile nel 2025, mettendo in campo aperto anche le fragole per consentire alle serre di riattivarsi e ridiventare fertili» dice l'agronoma Giovanna Del Pupo che nel carcere ha messo piede per la prima volta nel 2022, suggerita alla direzione dall'apicoltore che cura l'alveare. Perché oltre all'orto fra le mura, in una zona cuscinetto fra la reclusione e la libertà, dove cresce un frutteto di albicocche, pesche, susine, mele di diverse varietà, cachi e melograni, ciliegie, duroni e amarene, serre che fungono anche da vivaio e altri orti, ci sono anche una decina di arnie da cui si produce il miele del carcere.
Giovanna forma per 150 ore i sei detenuti, solo uomini, che a turno, selezionati in base a una serie di requisiti fra cui la quantità di pena già scontata, il tipo di reato commesso, la buona condotta, sono già in regime di semilibertà e autorizzati a lavorare all'esterno a fronte di uno stipendio minimo, che qui si chiama mercede. «Vorremmo arrivare ad avere nell'orto almeno 10 detenuti, ma dipende sempre dai fondi assegnati. Questo percorso è valido per ottenere un certificato di formazione professionale spendibile all'esterno - spiega Nicoletta Saporito -. Molti dei partecipanti hanno scoperto una passione o una predisposizione che non avrebbero mai sospettato. Ricordo un ragazzo che per anni è stato chiuso in cella completamente distaccato, poi “agganciato” con l'orto ha cominciato ad appassionarsi e quando è uscito ci ha detto che sperava di poter continuare a vendere verdure, era un vero talento del nostro mercatino».
Il mercatino agricolo del carcere
Prima di avviare la collaborazione con Franceschetta 58 le verdure venivano vendute allo spaccio interno, per il personale del carcere e gli avvocati che di lì passano per assistere i detenuti, era già stato avviato anche un mercato all'esterno, nel parcheggio che dà sua via Sant'Anna, il sabato mattina dalle 9 alle 10, da maggio a settembre, con i detenuti in semilibertà che coltivano e diventano per quell'ora anche venditori. «Un'iniziativa a cui partecipano sempre più modenesi che ci fanno i complimenti per la qualità dei prodotti - spiega Saporito - e intorno alla quale si è creata una vera comunità con tanti clienti che portano anche caffè e torte per guardie e detenuti impegnati a vendere le verdure». Ora l'obiettivo è farlo anche in inverno, da gennaio, con la produzione di cavoli e altri ortaggi invernali in ripresa.
Vivaio e laboratorio gastronomico
“La primavera arriverà” c'è scritto sul murale scolorito lungo uno dei corridoi dell'ala un tempo riservata alla massima sicurezza. Qui da qualche mese, anche per rispondere proprio alle richieste della Franceschetta58, è stato avviato un altro progetto collegato all'orto: nei “cubicoli”, vere e proprie scatole di cemento alte metri e metri disadorne e con solo il tetto aperto, un tempo utilizzati per l'ora d'aria delle detenute, è stato ricavato un semenzaio dove a turno le donne, in tutta la sezione femminile sono una trentina, si occupano della semina di piante aromatiche e fiori eduli da trapiantare poi nelle serre. In questa stessa area è stato poi ricavato un laboratorio gastronomico, rimettendo in funzione una vecchia cucina. In questo caso è la coop sociale Eorté che se ne occupa formando altri sei detenuti insegnando loro a impastare pane e prodotti da forno e fare i tortellini rivenduti poi nello spaccio interno.
Per le donne invece c'è dal 2023 la sartoria “Manigolde Circondariale” realizzata in collaborazione con l'associazione Mani Tese di Finale Emilia che con l'aiuto della Diocesi e altre associazioni ha riattivato la vecchia sartoria del carcere e oggi produce articoli con tessuti di riuso. Tre le donne in formazione che hanno cucito le divise degli addetti al laboratorio gastronomico, e la linea di borse “Al di fiori” per il punto vendita dell'associazione, con la prospettiva di un futuro inserimento lavorativo. Tutte attività che tendono a un unico obiettivo: il riscatto attraverso la conquista di un saper fare che possa generare poi un'indipendenza indispensabile per compiere “scelte giuste” nel futuro che queste persone avranno oltre quel muro alto di cemento.