Il 15 marzo scorso, la World Central Kitchen, l’ente di beneficenza fondata dallo chef stellato ispano-americano José Andrés Puerta, titolare di trenta ristoranti in diverse città degli Stati Uniti, ha consegnato insieme alla Open Arms quasi 200 tonnellate di cibo ai palestinesi nella Striscia. Oggi sette degli operatori dell’organizzazione umanitaria grazie ai quali quel servizio è stato possibile sono stati uccisi in un attacco aereo dell’esercito di Benjamin Netanyahu a Gaza proprio mentre erano in servizio.
Strage di operatori umanitari
I volontari erano due palestinesi con doppia nazionalità (Stati Uniti e Canada) e cinque cittadini di Australia, Regno Unito e Polonia: «Oggi abbiamo perso molti nostri fratelli e sorelle… angeli, con cui ho prestato servizio in Ucraina, Gaza, Turchia, Marocco, Bahamas, Indonesia. Sono persone, non sono senza volto... non sono senza nome. Il governo israeliano deve fermare queste uccisioni indiscriminate» ha scritto su X lo chef ricordando quegli uomini con grande tristezza e dolore. «Il governo israeliano deve smettere di limitare gli aiuti umanitari - ha aggiunto Puerta - smettere di uccidere civili e operatori umanitari e smettere di usare il cibo come arma. Niente più vite innocenti perse. La pace inizia con la nostra comune umanità».
Il cibo come arma di guerra
L’organizzazione ha spiegato come è avvenuta la tragedia: il convoglio su cui era il team stava viaggiando, che peraltro era ben riconoscibile, non si trovava in una zona interessata dai combattimenti. Nonostante questo, però, il mezzo è stato colpito: «Questo non è solo un attacco contro World Central Kitchen - ha sottolineato Erin Gore, Ceo dell’organizzazione - è un attacco ai gruppi umanitari che operano nelle situazioni più terribili in cui il cibo viene utilizzato come arma di guerra. E questo è imperdonabile». Il premier israeliano ha definito il raid «non intenzionale».
La World Central Kitchen dello chef José Andrés Puerta
World Central Kitchen ha immediatamente interrotto le operazioni nella regione e ha annunciato che «prenderà presto decisioni sul futuro del nostro lavoro». Fondata dallo chef José Andrés Puerta nel 2010 in occasione del devastante terremoto di Haiti, la Wck ha portato aiuti ovunque ce ne fosse bisogno: in Turchia, Ucraina, Marocco Nicaragua, Zambia, Perù, Cuba, Uganda, Bahamas, Cambogia e, nelle ultime settimane, appunto nella Striscia di Gaza dove le persone vivono ogni giorno la tragedia di una feroce guerra e dove la mancanza di cibo e acqua potabile ha ridotto la popolazione alla fame.
«Quando si ha bisogno di un servizio medico si chiamano medici e infermieri. Quando è necessaria la ricostruzione delle infrastrutture si utilizzano ingegneri e architetti. Se devi nutrire le persone hai bisogno di cuochi professionisti», sono ancora le parole dello chef, originario delle Asturie. Un messaggio chiaro, così come quello lanciato a Donald Trump quando nel 2015 Puertas rinunciò alle prestigiose cucine del Trump International Hotel di Washington nonostante un contratto già firmato, dopo i commenti sprezzanti dell'allora candidato presidente Trump sugli immigrati messicani.
Quando tutto è solo distruzione
Ma la distruzione è ovunque lungo la Striscia e davanti a tale devastazione riemergono anche i ricordi di chi ancora vive in quei luoghi. Lo racconta con grande commozione su Repubblica Sami al-Ajrami nel suo Diario da Gaza dove le sue parole fanno venire in mente quelle immagini del classico "prima e dopo". Il giornalista dipinge i quartieri più frequentati dove ora non c'è più nulla se non la paura di uomini, donne e bambini, terrorizzati dalla furia delle bombe.
Come quello di Rimal, nel cuore di Gaza City dove mesi fa c’era il ristorante "Italiano", il migliore del genere nella Striscia. «Tutti ci sono andati almeno una volta» racconta al-Ajrami e c'era anche il più antico albergo della Striscia, la Marna House, una villetta riconvertita in un hotel, con un vecchio albero e un bel caffè. Anch’essa distrutta. E poi c’era Abu Dalal, sulla piazza omonima, che preparava il miglior falafel di Gaza, l’ultimo mangiato dal giornalista un mese prima dell'inizio della guerra. Un grande dolore, conclude Al Ajrami, per chi ha vissuto tanti anni a Gaza, che ora guarda quella devastazione con una sola sensazione: che ciò che c'era non tornerà mai più.