Il vino italiano non dimenticherà facilmente quest'annata 2023. Anzi, probabilmente rappresenterà un prezioso termine di paragone utile per evitare eventuali errori fatti e provare a contenere, in futuro, gli effetti dei cambiamenti climatici che, stavolta, hanno preso la forma della peronospora. Numerosi produttori hanno rinunciato a raccogliere le uve, in difficoltà per la grave e violenta diffusione della crittogamica che ha portato l'Italia, assieme a un'estate prolungata e siccitosa, a uno dei peggiori raccolti di sempre dal punto di vista delle quantità. La lotta alle fitopatie, pertanto, resta una delle grandi emergenze del futuro. Per avere un quadro aggiornato, il settimanale Tre Bicchieri ha interpellato Riccardo Velasco, direttore del Centro di ricerca in viticoltura ed enologia (Crea-Ve), secondo cui la regola di base resta la capacità di trovare soluzioni preventive. Oggi, black rot (il marciume nero), flavescenza dorata, peronospora, mal dell'esca sono i nomi delle principali malattie della vite e sono lo spauracchio del vino made in Italy. Ma ci sono anche forti rischi per il possibile arrivo di nuove patologie. Non da ultima, la variante viticola della Xylella dell'olivo che, dopo aver distrutto oltre 35mila ettari di vigne in una California sempre più calda, si è affacciata per la prima volta in Portogallo nella primavera 2023, mettendo in allarme i servizi di fitosorveglianza di mezza Europa. «Abbiamo il dovere - sottolinea Velasco - di non farci cogliere impreparati».
Partiamo dall'attualità. Il 2023 rischia di essere una delle più scarse annate dal secondo dopoguerra a causa delle fitopatie. Qual è il vostro giudizio su quanto accaduto al vigneto Italia?
È un anno con la più bassa produzione degli ultimi decenni. La distribuzione è stata abbastanza difforme, coi danni peggiori al Sud e lungo la costa adriatica. In Marche e Abruzzi sono stati pesantemente colpiti sia i vigneti a difesa integrata sia a conduzione organica, con perdite anche del 100%. Anche in Puglia, nel tarantino, la peronospora è stata devastante. In generale, in tutto il Sud Italia. Qualche produttore è stato più pronto nell’intervenire alla prima insorgenza della malattia e ha salvato qualcosa in più, mentre altri, meno abituati a un attacco così aggressivo o più sfortunati per le numerosissime piogge, non sono riusciti a salvare niente. Al Centro Nord è andata un po' meglio. Nel Triveneto, le perdite sono state contenute; alcune province hanno prodotto anche qualcosa in più. In queste aree, l’abitudine a convivere con questi funghi è maggiore e forse la reazione è stata più rapida. Anche Toscana e Piemonte hanno retto meglio all’emergenza.
Quali i fattori scatenanti e perché non si è riusciti a contenere a sufficienza la peronospora?
Il clima ha avuto la responsabilità maggiore. È stata la peggiore primavera dell’ultimo ventennio, se non di più. Forse anche più attenzione alle prime sporulazioni avrebbe aiutato, ma col senno di poi tutto sembra più facile. Di certo, le regioni più abituate alla convivenza con la peronospora hanno avuto danni inferiori. Inoltre, nei vigneti dove una viticoltura organica è meno diffusa l’inoculo è stato inferiore, ovviamente se la difesa è preventiva e a base di composti rameici. Ma una pioggia che dilava e persiste tanto da non poter entrare per giorni e giorni in campo, in particolare a maggio, è stata una situazione da incubo, difficilmente contrastabile.
C'è il rischio che una così vasta infezione si ripeta nei prossimi anni?
Difficilmente avremo di nuovo situazioni d’emergenza di questo tipo, ma presumo che nei prossimi anni ci sarà anche maggiore attenzione alla pulizia del vigneto e a un pronto intervento.
I viticoltori bio hanno sofferto particolarmente. E c'è chi ha rinunciato a raccogliere. Ma, al contempo, l'Ue sta meditando se eliminare sostanze utili come rame e zolfo.
Al momento, questo equivarrebbe a un suicidio. Si vuole promuovere una viticoltura sostenibile e al tempo stesso si eliminano i pochi prodotti efficaci nel biologico. È un'assurdità.
Quali sono, allora, le strade?
È necessario favorire la diffusione dei prodotti che si sono dimostrati abbastanza efficaci, con un'azione sinergica, cercando di limitare il rame ai minimi termini. In Veneto, per esempio, si è studiato come ridurre l’uso di zolfo, dimostrando che una combinazione di prodotti possa contribuire al taglio di oltre 50% in un anno. Una viticoltura ben fatta richiede moltissima attenzione e una cura maniacale del vigneto se si vuole dare una svolta definitiva verso una sostenibilità che includa anche rame e zolfo.
Sappiamo che la viticoltura è un'industria a cielo aperto. Quali sono le malattie della vite attualmente più presenti e più pericolose sul nostro territorio?
Purtroppo la flavescenza dorata e, in genere, le fitoplasmosi hanno avuto delle recrudescenze, anche per la drastica riduzione degli insetticidi. Possiamo considerare la flavescenza una malattia di ritorno. Nel 1998, era un problema molto serio e con determinati insetticidi, oggi non più consentiti, fu ridotta a un livello tollerabile. Oggi, tra cambiamenti climatici e minori strumenti anche meno efficaci siamo punto e a capo. Si tratta di malattie non controllabili in altro modo se non estirpando le piante malate e trattando adeguatamente la diffusione degli insetti vettori. Non si può assolutamente prescindere da questi due interventi. La mancanza di uno di essi potrebbe dare seguito a drammatiche conseguenze. Se la si lascia diffondere dai vigneti incolti a quelli non trattati gli effetti per la zona possono essere devastanti.
Come giudica la reazione del mondo produttivo sulla flavescenza?
Devo dire che nelle regioni dove si sono avuti i peggiori attacchi, dal Piemonte al Friuli, si stanno prendendo le misure e il mondo produttivo ha reagito con una certa maturità. Il 2023 è stato migliore del 2022. Si può ben sperare per il futuro, se questa consapevolezza migliorerà ancora. Altre malattie come mal dell’esca, o black rot, sono impietose ma si sta imparando a conviverci, a controllare maggiormente lo stato di salute del vigneto. E anche questa consapevolezza potrà aiutare in futuro. Queste malattie sono più diffuse delle precedenti confinate al Nord, ma guai ad abbassare la guardia perché si possono diffondere facilmente anche al Centro Sud.
Che ruolo gioca la ricerca? E cosa non siamo riusciti a fare?
La ricerca può molto nella prevenzione e nel monitoraggio, sono state fatte mappe molto dettagliate e grazie a questi interventi le Regioni possono intervenire prontamente. Tuttavia, la ricerca non ha ancora trovato quella parte del sistema di difesa della pianta che potrebbe dare indicazioni anche alla genetica per produrre piante resistenti, così come invece fa per peronospora e oidio. Le fitoplasmosi, al pari dei virus, non sono curabili né ci sono indicazioni forti di resistenze efficaci nelle numerose varietà coltivate. Alcune mostrano maggiore resilienza, come il tocai friulano o i moscati. La strada è lunga, ma troveremo qualche indicazione sull’origine di questa minore suscettibilità. Tuttavia, non sarà risolutiva. Per il prossimo decennio, estirpo immediato (non a fine stagione) e lotta al vettore restano le uniche vie per contenere la flavescenza.
Veniamo alle fitopatie emergenti. Quali sono quelle che potrebbero essere un grave problema futuro?
A parte la recrudescenza della flavescenza, e forse in alcune zone del mal dell’esca, non appaiono gravissime patologie all’orizzonte, ma non per questo si deve abbassare la guardia. La ricerca è sempre molto attenta e cerca di dare risposte preventive alle patogenicità. In questo senso, la Xylella dell’olivo insegna.
Potrebbe essere la Xylella un rischio concreto per il vino?
Dobbiamo prevenire la diffusione della subspecie che attacca la vite.
L’ articolo completo è stato pubblicato sul Settimanale Tre Bicchieri del 14 dicembre 2023
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