Il primo taglio bordolese in Italia nasce in un luogo insospettabile. A 30 minuti di macchina dalla redazione del Gambero Rosso, tra l’Appia Antica e l’aeroporto di Ciampino. La porta sud della Capitale. Raggiungiamo la Tenuta di Fiorano in una giornata a dir poco uggiosa, imbocchiamo via di Fioranello e svoltiamo ai primi casali protetti da pini marittimi. Ci viene incontro il principe, Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi: «purtroppo la cocciniglia se li sta mangiando, dovremmo abbatterne parecchi».
Da sempre bio
La tenuta si estende per 200 ettari, 12 sono di vigna, poi ulivi, sementi e pascoli. «Mio zio Alberico era un naturalista convinto, ha sempre pensato a una coltivazione totalmente sana, a produrre solo il giusto. Il pensiero di chi fa un buon vino prima di tutto per sé». Le vigne sono condotte in biologico, inerbimento naturale e rotazione delle colture. Alberico era il Principe di Venosa, anche detto Principe col trattore, negli anni Quaranta decise d’impiantare varietà del tutto insolite per l’epoca, cabernet sauvignon e merlot, per i rossi, malvasia di Candia e sémillon, per i bianchi. «Il valore di queste terre è dettato dal suolo vulcanico e da questo vento costante. D’altronde il mare è laggiù, una decina di chilometri in linea d’aria», ci racconta mentre camminiamo per le vigne. Mai sentito così tanto freddo in tutto l’inverno. Alessandrojacopo ha ripreso l’attività dello zio Alberico, mantenendone credo e rigore.
«Le prime annate in produzione sono degli anni Quaranta, abbiamo trovato bottiglie del 1953 e del 1955 ancora in forma». I vecchi millesimi sono custoditi nella leggendaria grotta di tufo, due torri segnano l’ingresso. «La cantina storica accoglie circa 35mila bottiglie, conservate in nicchie e botti diverse. L’accesso è negato al pubblico e giornalisti». La sola eccezione fu per Gino Veronelli, che negli anni Sessanta scrisse che Fiorano era tra i rossi migliori d’Italia, dando inizio al mito del vino alle porte di Roma. Scoppiettante il suo primo incontro con Alberico: «Mi sono fermato per suonare il campanello; nessuno rispose; il cancello era aperto, così decisi di entrare, quando sentii rumore di zoccoli di cavalli; non feci in tempo a voltarmi che il Principe mi stava già puntando un fucile in faccia», racconta in una lettera. Successivamente fu proprio Veronelli a convincere Alberico a commercializzare il vino, allora prodotto solo per uso privato.
Un lavoro artigianale
Acquistarli non era semplice. Bisognava chiamare prima per ordinare i vini e presentarsi di persona per ritirarli nel giorno e nell’ora stabiliti, portando tassativamente l’importo esatto in contanti. Le etichette venivano attaccate sulle bottiglie al momento e si veniva chiusi a chiave nell’attesa per non guardare troppo in giro. «Abbiamo ancora questo carattere artigianale e ritmi d’altri tempi, basta vedere le persone che ci lavorano. Il fattore, Gianni, vive in questo casale da quasi 80 anni. È la nostra memoria storica». La cantina di vinificazione è semplice ed essenziale, come tante cose da queste parti, fondata su base romana, con un foro per far precipitare il vino in grotta. Per la produzione Alberico si affidò a tecnici come Giuseppe Palieri, tra gli anni Cinquanta e Settanta il timone passò a Tancredi Biondi Santi. La produzione era limitatissima e vini erano già noti per aprirsi, come oggi, dopo parecchi anni. Introvabili e dall’evoluzione lenta imprevedibile: il mito di Fiorano ha alimentato la curiosità degli appassionati.
A noi è capitato in un paio di occasioni di assaggiare bottiglie degli anni Sessanta, sbucate non si sa da dove, conservate non si sa come. Erano buonissime, a volte molto diverse ma sempre affascinanti. Le vicende della famiglia mettono il carico sul senso di mistero che circonda la tenuta. Nel 1995 Alberico, all’improvviso, prende una scelta un filo drastica: estirpa tutti i vigneti, a eccezione di otto filari di cabernet. «La versione ufficiale? Ci teneva così tanto alla sua produzione che non voleva finisse nelle mani sbagliate». Il rapporto con l’unica figlia Francesca, che aveva sposato il marchese Piero Antinori, non era idilliaco. Poco dopo Alberico cede al cugino Paolo, padre di Alessandrojacopo, i diritti di reimpianto per ripartire, e la giostra si rimette in moto. Le prime bottiglie arrivano nel 2002. «Era molto contento avessimo sposato la sua filosofia. Ero timoroso a fare uscire i vini con quel nome, per la storia che si portava dietro, ma è stato proprio lui a incoraggiarmi, dandomi indicazioni su tutto». Alessandrojacopo, che è appassionato d’arte e cura una galleria d’arte contemporanea e una classica, l’ha fatta diventare la sua questione di vita. Segue in prima persona, e con una certa apprensione ci dicono i suoi dipendenti, tutte le fasi produttive. Ci mette la faccia, l’abbiamo ritrovato spesso dietro a un banchetto a mescere vino con l’entusiasmo di un ragazzo, mentre qualche passante chiedeva il selfie “cor principe”. Non è stata una passeggiata pacifica la sua.
Eredità complessa
Nel 2005 Alberico muore lasciando una pratica ereditaria a dir poco complessa che porterà a una guerra fredda tra i Boncompagni e gli Antinori. Dopo aver già ceduto i diritti d’impianto, quando era in vita, Alberico lascia sempre al cugino Paolo e il figlio Alessandrojacopo anche la cantina e i terreni annessi. Si apre un conflitto con l’unica figlia, Francesca, che aveva sposato Piero Antinori, e le tre nipoti: Albiera, Allegra e Alessia. Quest’ultima eredita la villa e alcuni terreni. Nel 2011 impianta le vigne e inizia a produrre vini con lo stesso nome: Fiorano e Fioranello. I vini escono come Fattoria di Fiorano. Le due proprietà sono lontane pochi metri, sulla stessa via di Fioranello (17 e 34), la confusione è totale. Nel 2015 la prima sentenza stabilisce che non è possibile utilizzare il nome Fiorano per servizi di ristorazione e alloggi come fatto dagli Antinori. Nel 2020 la sentenza definitiva riconosce come unico marchio Fiorano legittimo quello legato al nome del principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, proibendo ai Marchesi Antinori la produzione e la commercializzazione di vini sotto tale nome. La cantina degli Antinori diventa Tenuta Principe Alberico.
Camminiamo tra i filari, all’improvviso in lontananza s’intravede il Cupolone, alle spalle abbiamo i Colli Albani. In vigna perdura una “follia produttiva” voluta da Alberico: le uve per i rossi - il cabernet e il merlot in parti uguali danno vita al Fiorano Rosso – sono infatti raccolti insieme in un giorno medio di maturazione. «Organizziamo una doppia squadra di raccolta per vitigno, fermentiamo e vinifichiamo insieme». I rossi sorprendono per un accento speziato molto fine, tra il balsamico e lo speziato, mentre i bianchi sono molto austeri, con un andamento insolito: partono maturi e acquisiscono freschezza e slancio in un secondo tempo. L’enologo da diversi anni è Lorenzo Costantini, che ben conosce il territorio. In Asia i vini di Fiorano sono molto apprezzati, una bottiglia di Fiorano Rosso 1956 è stata battuta per poco più di mille euro qualche anno fa, racconta Raimondo Romani, della casa d’aste Gelardini & Romani con basi a Roma e Hong Kong. Lì lavora dal 2007.
Il ritorno del semillòn
Se non fossimo nel Lazio, la considerazione sarebbe probabilmente diversa. Fiorano Bianco è un racconto a sé, il rosso può tranquillamente sfidare a viso aperto territori come Bolgheri e Bordeaux. Cos’hanno in comune queste zone? L’effetto marino, la costante ventilazione, una buona escursione termica. Anche l’altitudine. Alberico e Tancredi Biondi Santi avevano scelto la via della botte grande, Giacomo Tachis aveva adottato la scuola francese con la barrique per il Sassicaia (prodotto dal 1948 e commercializzato solo dal 1968). Due strade, due grandi lezioni per i primi bordolesi d’Italia. La prima è nata qui, sull’Appia Antica, all’interno di un parco archeologico ancora da valorizzare. «All’interno della tenuta ci sono diversi casali da ristrutturare, l’enoturismo inizia a essere un fattore importante. Sono solo, ci vorrà del tempo ma ci arriveremo». Nel frattempo, il principe prende una bottiglia di bianco senza etichetta e un bicchiere. «Me lo dovete dire voi cosa stiamo bevendo».