Ha lasciato nel 2021 la maggioranza della Rolland Consulting a Bordeaux. Ha sviluppato diversi progetti nel mondo: in Argentina “Clos de los Siete”, “Mariflor” e “Val de Flores”; in Sud Africa “Bonne Nouvelle”. È l'enologo di riferimento degli ultimi decenni di cambiamento in cui ha contribuito all’evoluzione della viticoltura e dell’enologia come la conosciamo oggi. Un genio per alcuni, un “semplice” omologatore del gusto per altri, Michel Rolland è una figura carismatica nel mercato dei fine wines. Da Bordeaux, sua terra d’origine, la sua influenza si è estesa in tutti i continenti. La Rolland Consulting è oggi un’azienda strutturata, con laboratori all’avanguardia ed un team di tecnici di altissimo livello che mettono in grado Michel di firmare centinaia di etichette di grandi vini in ogni regione vinicola - o quasi – del mondo. Ma le sue fortune iniziano negli Stati Uniti negli anni Ottanta, con le entusiastiche recensioni dei suoi vini di Bordeaux da parte di un giovane critico, Rober Parker Jr.
Partiamo da casa. Lei è il più famoso enologo di Bordeaux. Ma il Modello Bordeaux sembra in crisi… In questi ultimi tempi arrivano notizie poco rassicuranti, si parla di sovrapproduzione, di programmi di espianti consistenti di vigneti…
Bordeaux è uno dei territori a denominazione più importanti, se non il più importante del mondo. Parliamo di 115 mila ettari di vigneti, all’incirca. Ovviamente a Bordeaux ci sono dei problemi. A Bordeaux ci sono dei vini “haute de gamme”, che non hanno difficoltà, anzi… Al contrario… Poi c’è una produzione più di massa - e qui parliamo di 6 milioni di ettolitri – i vini di gamma media, poi i vini di largo consumo. Per i vini di gamma media e medio bassa non c’è una grande clientela oggi, perché la piazza commerciale di Bordeaux non se ne interessa. Le maison de négoce, i tradizionali intermediari tra produttori e mercato, sono più interessati a vini come Masseto, Ornellaia o Sassicaia perché su questi si fanno margini più alti, si vendono più cari, e i négociants non si interessano a vini dove non si può fare un profitto elevato, al contrario del passato dove anche questi vini passavano dal négoce. Il secondo problema è che oggi si fa vino in tutto il mondo, e la qualità media è cresciuta enormemente su scala globale, quindi gli spazi di Bordeaux si sono ristretti… In passato questi vini beneficiavano dell’immagine di Bordeaux, dei grandi Chateau, ma oggi tutto questo non basta più, perché Italia, Spagna, Stati Uniti, il Sud America, ad esempio, fanno molti buoni vini e sono entrati in concorrenza.
Non è una questione di stile Bordeaux o stile Borgogna, allora…
No, credo proprio di no.
Forse in tutto questo ha influito anche la critica enologica internazionale, in questi ultimi anni si è parlato molto più della Borgogna che di Bordeaux, non crede? Bordeaux è ancora al centro del mondo del vino?
Il gusto della critica si è evoluto; i critici - che hanno una relazione diretta con i consumatori, e ne influenzano le scelte – si stanno orientando verso vini che si possono bere giovani; oggi si beve più velocemente, e il mercato dei collezionisti che mettono il vino in cantina per invecchiarlo, e può attendere, si sta restringendo. È una tendenza che vediamo in Francia agli con la Borgogna, ma anche in Italia dove sono emergenti vini come Barolo e Barbaresco, grazie alla leggerezza espressiva del nebbiolo. Io credo che sia in atto un’evoluzione del gusto della critica più che dei consumatori. Il gusto del consumatore, e lo vedo quando presento i miei vini nel mondo, resta più conservatore…
Lei ha fatto vini in tutte o quasi le zone vinicole del mondo. Non ha mai provato a fare vini in Borgogna
No, avrei potuto, ma il problema della Borgogna è che si tratta di proprietà molto piccole, e poi ci sono anche problemi logistici, tra Bordeaux, dove abito, e la Borgogna ci sono 600 chilometri…. Fare il viaggio per visitare un piccolo Domaine che ha qualche decina di barrique e poi cinque ore a ritorno non è un’ipotesi praticabile. Per me la produzione di vino è un lavoro, è il mio business, devo ottimizzare i tempi. Mi piacerebbe, ma non ho dossier aperti sulla Borgogna. Quando vengo in Italia, ad esempio, passo da quattro-cinque aziende in sequenza: ieri ero da Biserno, oggi da Ornellaia, domani da Caprai e poi sarò da Monteverro, per noi sono clienti importanti. È questa, essenzialmente, la motivazione.
In Italia lei lavora principalmente in Toscana… Forse perché c’è qualcosa in comune con Bordeaux?
Si certo… anche se c’è l’Umbria… Comunque, i toscani sono stati i primi che sono venuti a cercarmi, il primo è stato Lodovico Antinori per Ornellaia. Dopo ho lavorato per Ruffino per parecchio tempo, con Ambrogio Folonari, dove ho fatto il Cabreo, poi il Chianti Classico Riserva Ducale… Oggi con Julien Viaud seguiamo Biserno. Dopo è arrivato Monteverro.
Lo stile Rolland: è pensato per il palato americano, per i consumatori del nuovo mondo? Vini morbidi, rotondi, fruttati e ricchi?
Si, lo sento dire. Non so se esiste uno “stile Rolland”. Posso dire che Rolland è un professionista con cinquant’anni di mestiere. Cinque decenni. E Rolland è in piena attività. Io credo che se il suo stile non fosse stato buono, professionalmente sarebbe morto (ride) già molto tempo fa… Quindi, “stile o non stile” non è decisamente questo il problema.
Probabilmente la sua reputazione è legata alle recensioni di Robert Parker, che ha scritto più volte che Michel Rolland è il più grande enologo del mondo?
È stato davvero molto gentile a dirlo… (ride)
Certo, ma tutto questo ha avuto delle conseguenze sulla scena enologica francese, europea e internazionale… Il mercato statunitense è il più importante del mondo, e quindi… Le sue scelte sono state orientate ad assecondare il palato americano…
La seconda parte della mia risposta è che quando faccio un vino – e io amo tutti i vini che faccio – credo che si debbano fare dei vini che poi si vendono. Il vino migliore è… quello che si vende! Il vino è un bene economico, si produce per scambiarlo. E l’azienda che lo produce deve prosperare. È vero, quando ho iniziato, negli anni Settanta, il mercato che stava per esplodere era il mercato americano. Ed è vero, ho fatto vini che potessero piacere al palato americano, ma questi vini oggi piacciono anche ai cinesi e agli europei. Allora, dov’è la verità? Non lo so, so soltanto che grazie alle critiche positive, come quelle di Robert Parker, certo basate sul suo gusto personale, il mondo del vino è progredito enormemente in termini di qualità. La proposta enologica mondiale oggi è infinitamente migliore e più interessante di quel che si trovava sul mercato quarant’anni fa.
Per alcuni lei è il guru dell’enologia, lo scienziato che ha cambiato il volto dell’enologia moderna, per altri una sorta di grande Satana, l’omologatore…
Ma qui è come nella politica, del resto non si possono avere consensi unanimi. Lo so, c’è gente che mi vede come il diavolo, altri come un santo… (ride) cerco di essere un po’ tutt’e due…
Per molti il ruolo dell’enologo cinico che le è stato affibbiato nel film MondoVino le ha portato più consensi che negatività…
Ah sì, certamente! C’è un adagio francese che recita “bene o male, l’essenziale è che se ne parli…”. Per me è stato un grande successo…
In California si possono fare dei vini originali o nel caso di Harlan, Araujo, Screaming Eagle si tratta solo di applicare dei protocolli bordolesi classici?
Beh, non sono male, no? (ride)… Comunque, quando assaggiamo dei vini californiani accanto a vini di Bordeaux è evidente che non si somigliano. Sono tutti vini basati sul cabernet sauvignon, ma sono espressioni totalmente differenti del vitigno. E poi le percentuali del cabernet sauvignon in California sono più alte. A Bordeaux ci sono vini con l’80% di cabernet sauvignon ma sono rari, da noi la maggior parte sono tra il 65 e il 75% di cabernet sauvignon, poi c’è il merlot, un po’ di cabernet franc, di petit verdot. E infine ci sono i vini bianchi di Bordeaux. In California si possono fare anche quelli, ma i grandi rossi californiani come quelli che abbiamo nominato sono Cabernet Sauvignon al 90%. Quindi abbiamo percentuali diverse e un’espressione del vitigno diversa. Non siamo su suoli simili e abbiamo un clima differente; certo, il lavoro in vigna e in cantina è simile, ma le origini sono diverse e quindi i vini sono diversi.
Per lei com’è cambiato il palato del consumatore in questi ultimi vent’anni?
Per me non è cambiato molto. E dico perché. Io ricevo molte persone a casa mia, e gente di tutto il mondo, e anche persone che sono estranee al mondo del vino. Bene io ho una cantina - direi una cantina importante - e ho molte vecchie annate. Allora, il consumatore medio, oggi, non ha più una cantina, e questo perché è diventato troppo impegnativo gestirla, anche finanziariamente. Poi ci sono i furti… Persino a Parigi molti miei conoscenti sono stati derubati delle bottiglie più preziose. E quindi la gente non mette più il vino in cantina. Se ha ospiti a cena scende in enoteca o va al supermercato e compra i vini per la serata. Di conseguenza si bevono vini che hanno due tre anni, e non si bevono più le vecchie annate. Quando organizzo degustazioni a casa mia, faccio assaggiare vini che hanno quindici, venti o venticinque anni. Non ho mai trovato qualcuno che dicesse che non ama le vecchie annate. La gente le ama, ma non se le può più permettere. Non è cambiato il gusto, allora, solo il consumatore è stato costretto a cambiare abitudini.
Ci sono vini o annate che considera fondamentali nella storia della sua carriera?
C’è un’annata che indiscutibilmente ha cambiato le carte in tavola a Bordeaux, ed è stata l’annata 1982. Poi se parliamo di vini che hanno segnato la mia esperienza professionale, allora direi Chateau Troplong-Mondot a Saint-Émilion, Harlan Estate in California, poi Ornellaia e Masseto in Italia, e ancora Clos Apalta in Cile, uno dei vini iconici di quel paese, e infine il vino di una piccola azienda che amo molto in Argentina, Val de Flores, da vecchie vigne di malbec. Secondo me è il miglior vino che si fa oggi in Argentina.
Si parla molto di vino senza alcol, sarà questo il futuro del vino?
Caro Gambero Rosso, il vino senza alcol non può esistere o dobbiamo cambiare la definizione che è stata data dall’OIV a livello internazionale. Il vino senza alcol non è vino.
In trent’anni è cambiata più la viticoltura o l’enologia?
Sono cambiate entrambe, ma l’enologia è progredita prima della viticoltura. L’enologia è partita prima. Negli anni Settanta, quando io ho iniziato, la cosa principale era avere delle cantine pulite. Sembra strano oggi pensare che si vinificasse in ambienti non puliti, a quell’epoca era fondamentale pulire i vasi vinari, i tubi, si dovevano rendere asettici gli strumenti e le attrezzature di cantina. All’epoca molti vini avevano difetti importanti, acidità volatile eccessiva, attacchi di batteri e di lieviti anomali; quindi, ci siamo impegnati prima a migliorare le condizioni di vinificazione. Dopo ci siamo resi conto che se non avevi una materia prima di livello non potevi fare vini importanti. E così ci siamo concentrati sulla vigna per migliorare la qualità delle uve. Oggi siamo ad un buonissimo livello sia per gli aspetti tecnici ed enologici sia sul piano viticolo, ma questo è un processo di miglioramento continuo. Ogni giorno si scopre qualcosa di nuovo e si va avanti.
Boom dei vini naturali: pratiche ancestrali o ritorno alle origini della storia del vino?
Un ritorno alle origini? Sì e no…
È una forma di protesta contro gli enologi?
No, non credo, Il problema è che c’è sempre bisogno di cambiamenti, di raccontare storie nuove. Allora separiamo i discorsi. Che vuol dire vino naturale? Per definizione tutto il vino è naturale, nasce da un fenomeno naturale di fermentazione degli zuccheri ad opera dei lieviti. Le uve maturano nei vigneti naturalmente, la fermentazione è un processo spontaneo. I greci per coprire i difetti dei loro vini aggiungevano aromi e spezie, e per evitare che il vino diventasse aceto. Se lo facessimo anche oggi che si direbbe? Che è vino naturale? Sono tutte belle storie per attirare il consumatore. Altra cosa è fare il vino partendo da una viticoltura sostenibile, che pensa all’ambiente e al futuro. Perché è sicuro che negli ultimi decenni la viticoltura come tutta l’agricoltura ha avuto la tendenza a utilizzare troppi trattamenti. Si facevano trattamenti anche in via preventiva quando probabilmente non ce n’era bisogno. Oggi i trattamenti sono molto più ragionati. Il clima è cambiato. Prendiamone atto. Il riscaldamento globale ci ha portato naturalmente a una drastica riduzione dei trattamenti, dato che le patologie della vite sono meno aggressive. Ma ci sono annate come questa 2023 dove la situazione è diversa: piogge e umidità, poi sole… la chiamiamo un’annata da funghi, e quindi c’è bisogno di fare trattamenti. Ma ormai si è svegliata una coscienza collettiva in tutti i produttori, e non c’è più nessuno disposto a fare trattamenti se non sono strettamente necessari, a differenza che in passato.
E la biodinamica? Che ne pensa?
La biodinamica usa altre tecniche, poggia su concetti diversi, che non critico affatto. Ho molti amici e parecchi clienti che lavorano in biodinamica. È una tecnica difficile da padroneggiare, bisogna avere molte conoscenze e personale sinceramente appassionato della materia. Quando devi intervenire in vigna hai delle finestre molto strette, e magari ti capita di dover entrare nel vigneto alle sette di mattina della domenica: più che difficoltà tecniche alla fine si tratta di problemi umani… È questo l’aspetto più complicato. A volte si tratta di pratiche un po’ curiose, come sotterrare i corni letame ai quattro angoli del vigneto, ma ho molto rispetto per chi la pratica.
Tini in cemento, anfore, vini bianchi macerati… Sono le nuove frontiere dell’enologia contemporanea?
Domanda complicata… Iniziamo dal cemento: sono molto favorevole. Il legno è un contenitore eccellente per il vino, ma è costoso, difficile da mantenere sano e pulito, e dopo qualche anno lo devi cambiare. Tecnicamente ed economicamente è una storia complicata. Ma non si può eliminare, o per lo meno non completamente. Dopo il legno viene il cemento, perché ha una ottima inerzia termica. E la costanza della temperatura in fermentazione è un aspetto cruciale per la qualità. Il cemento sotto questo profilo è ottimo. Il terzo materiale è l’acciaio inox, che nella storia ha conosciuto due epoche. Nella prima, quella dei tini con le pareti sottili: era quasi impossibile controllare la temperatura, la parte esterna era sempre più fredda della parte interna, e c’erano problemi di arresto di fermentazioni… Oggi ci sono i tini con le doppie pareti, le intercapedini refrigeranti, che permettono un perfetto controllo della temperatura in tutte le fasi.
E le anfore?
Le anfore? Non ho niente contro le anfore (ride), solo che a volte sono difficili da controllare, a volte sono troppo porose e fanno passare un po’ troppo ossigeno… Bisogna conoscerle bene e gestirle bene, è complicato ma interessante. Ma spesso è un argomento di marketing. In una cantina che fa 800mila bottiglie avere quattro anfore vuol dire avere un’incidenza minima e non percettibile sul prodotto finale… Spesso sono solo chiacchiere…
Non ci sono cantine che hanno solo anfore?
Ne conosco solo una: a Pauillac c’è Chateau Pontet-Canet, che matura il 50% della sua produzione in anfora… Allora qui possiamo parlare di influenza sul risultato finale… Altrimenti sono chiacchiere… Ci sono quelli che mettono un’anfora ai quattro angoli della cantina per dire che le hanno… Ma siamo seri… Comunque, non ho niente contro le anfore… A patto di scegliere la terracotta giusta e le capacità giuste per ogni vino…
Lei non fa nessun vino in anfora?
Io di anfore ne ho dappertutto, almeno due per cantina (ride)… se venite a Chateau Fontenil, a Fronsac, potrete vedere due tini in cemento e due dolia. I visitatori ne sono entusiasti (ride) ed amano fotografarsi vicino alle anfore… Qui facciamo 50mila bottiglie e abbiamo due anfore… il che equivale allo 0,01 della produzione… I bianchi macerati? Ho rispetto per chi li produce (ride). Gli orange wine non sono nelle mie corde, e quindi non mi è venuta voglia di farne finora. Voi li recensite nella Guida dei Vini? Qualcuno ha Tre Bicchieri?
Si certamente, e ci sono dei territori dove è una pratica ormai diffusa, alcuni vengono anche premiati, sono vini molto interessanti…
Ah, bene, sono curioso di assaggiarli.
Mi dica tre vini che ama ma che non ha fatto lei… magari un bianco, un rosso e uno spumante…
Tra i bianchi amo molto lo Chardonnay, allora direi il Meursault di Comtes Lafon, davvero buono. Un vino rosso che non ho fatto io… e che mi piace? Ce ne sono talmente tanti! Escludendo l’ovvietà dei grandi nomi direi sicuramente Léoville-Las Cases a Saint Julien. Un rosso davvero elegante. Un vino straniero? Beh, non sono molti quelli davvero buoni (ride ancora)… Forse Colgin in California.
E per le bollicine?
Adoro gli spumanti… Non conosco bene la scena italiana, ma vedo che il Prosecco Doc sta facendo bei numeri in Francia, oltre 40 milioni di bottiglie… Un dato che mi ha davvero colpito. Io amo lo Champagne. Vini rossi buoni fuori della Francia si producono in tutto il mondo, dall’Italia alla California, e me ne piacciono moltissimi. Ma se si parla di bollicine lo Champagne non ha rivali, è un’altra cosa. Li bevo tutti con piacere, e se voglio qualcosa di speciale stappo un Salon o un Clos du Mesnil. Mi piacciono i Blanc de Blancs.
Il Nuovo Mondo: lei fa vini in Cile, in Argentina vinifica il malbec, che a Bordeaux non è certo una varietà importante, ma in Argentina quest’uva è diventata una star.
È un’uva originaria di Bordeaux, dove è quasi scomparsa (ce n’è ancora un po’) e per delle ragioni molto semplici: il malbec non si è mai perfettamente adattato al clima bordolese, perché non ama la pioggia ed è molto sensibile al marciume. È un’uva molto complicata se si vogliono fare dei vini di alto livello. L’Argentina è l’unico paese al mondo dove si possono ottenere grandi vini dal malbec, e questo grazie alla sua posizione “ipercontinentale” dove le zone viticole sono a ridosso della cordigliera delle Ande, e dunque non c’è nessuna influenza oceanica, né da Ovest né da Est. Qui il malbec ha trovato la sua posizione ideale. In Francia i Malbec più interessanti vengono da Cahors, che ha un clima molto più continentale di Bordeaux, siamo a 250-300 chilometri dalla costa, l’influenza dell’oceano è minima…
Ora siamo a Montefalco: qui si fa un vino particolare, il Sagrantino. Lei ha ripensato totalmente il processo produttivo. È stata una vera sfida?
Si è vero, sono anni che lavoro qui, e siamo riusciti a realizzare un rosso elegante che smussasse l’irruenza potente di questa uva particolare, la sua rusticità. Il mese scorso ho assaggiato una bottiglia del 2006, la prima annata che abbiamo “toccato”, anche se non l’abbiamo vinificata noi. Era un vino ricco, elegante complesso, ma ci sono voluti 17 anni per domarlo. Il Sagrantino non sarà mai un vino sottile e filiforme, ma credo che siamo riusciti a donargli un taglio più moderno, a renderlo più fruibile e seducente anche con una maturazione relativamente più breve, nonostante la sua ricchezza e i suoi tannini. Abbiamo cercato un’eleganza ed un equilibrio nuovi ma senza snaturarlo nella sua essenza.
Quali sono i suoi programmi per il futuro?
Continuare a lavorare ma prendermela comoda. La cosa che mi appassiona di più in un’azienda è fare i tagli dei vini, assaggiare botte per botte, barrique per barrique per arrivare all’amalgama finale, che cambia ogni anno. Ho ceduto la maggioranza della Rolland Consulting e del laboratorio ai miei collaboratori, Julien Viaud, Mikael Laizet and Jean-Philippe Fort. Ora l’azienda si chiama “Laboratoire Rolland & Associés” e racchiude il settore delle consulenze (250 in più di 15 paesi, n.d.r) e i laboratori d’analisi (oltre 500 clienti, dove si analizza tutto, dai mosti ai vini e ai suoli). Io e mia moglie Dany abbiamo solo una piccola quota. Ho aziende a Bordeaux e in Argentina, che è la mia seconda casa. Mi dedicherò di più a me stesso e alla famiglia ma… Lavorare mi diverte ancora molto!