Come conquistare i mercati internazionali? E su quali puntare per il futuro? Cosa cambiare per migliorare il Vinitaly? Quale è l'andamento di quelli interni e quali sono le regioni su cui investire? Ci hanno risposto, in un'intervista a più voci, due grandi imprenditori del vino, entrambi possibili candidati alla presidenza dell'Unione Italiana Vini: Ettore Nicoletto e Antonio Rallo
Ettore Nicoletto
Una profonda conoscenza dei mercati internazionali e una solida gestione manageriale. Due costanti nel profilo di Ettore Nicoletto, ad del Gruppo Santa Margherita dal 2008, candidato alla presidenza dell’Unione Italiana Vini. È stato direttore export per Zonin e per due mandati presidente di Italia del Vino. Tra le passioni, il motociclismo fuoristrada con tanto di piazzamenti nei campionati mondiali. L’abbiamo intervistato a Vinitaly: ecco la sua visione per rilanciare la fiera e affrontare le sfide dell’internazionalizzazione.
Antonio Rallo
Coi piedi ben saldi sulla terra e con idee molto chiare sul futuro del vino italiano, in particolare siciliano. Appena rientrato da Vinitaly, lo abbiamo intercettato mentre era intento a verificare lo stato vegetativo dei suoi vigneti nelle campagne di Marsala e a curare le fasi di lavoro della cantina: Antonio Rallo, contitolare di Donnafugata, agronomo, presidente della Doc Sicilia, attuale vicepresidente di Unione Italiana Vini e candidato alla presidenza dell'influente sindacato di categoria, riflette sulla fiera del vino di Verona e sulle prospettive dei mercati.
Impressioni a caldo dalla 50esima edizione del Vinitaly?
Nicoletto: In passato ero critico, quest’anno sono più positivo. Ci sono aspetti strutturali complicati dovuti alla collocazione della fiera: parcheggi, traffico, flussi. Ma lì dove Veronafiere poteva intervenire l’ha fatto bene, potenziando servizi come i bagni e filtrando gli ingressi: c’è stato un numero inferiore di persone per il costo maggiore dei biglietti ma una buona qualità di operatori. La vicinanza con la ProWein non ha giovato perché molti visitatori internazionali sono andati lì, però parliamo di una buona edizione, si respira un’aria positiva e di fiducia dopo un 2015 positivo. Un appunto, faccio una critica ai manager, vedo un po’ troppa euforia in giro. Non crogioliamoci: c’è una congiuntura favorevole sull’estero grazie all’effetto dei cambi, che però va sfruttato meglio.
Rallo: Vinitaly ha fatto un primo passo nella direzione richiesta dai produttori: fare maggiore selezione del pubblico. L'ho fatto notare direttamente al presidente di Veronafiere, Maurizio Danese, dicendogli che nel 2017 dovrà fare il secondo: ovvero non fermarsi. Vinitaly deve diventare una fiera del vino più esclusiva che dia l'opportunità agli operatori di lavorare meglio, e alla città e ai veronesi di vivere questo momento non come un incubo. L'evento Vinitaly and the city, in questo senso, è una buona idea. E forse si dovrebbe organizzare, sempre a Verona ma in un diverso periodo, un altro grande evento dedicato al vino con focus sui consumatori.
Cosa ne pensa dell’idea di portare Vinitaly a Milano, come è stato profilato dal fotografo e produttore Oliviero Toscani?
N: Per tradizione Verona è una capitale del vino, una delle capitali mondiali; il Veneto è di gran lunga la regione più esportata con 1,8 miliardi di fatturato; ha la più grande Dop a volume del mondo (Prosecco). Non c’è regione o città migliore, anche per storia, per fare da vetrina alla proposta. Lo spostamento su Milano non cambierebbe le sorti di questo patrimonio fieristico o andrebbe a valorizzare di più quello che è già un importante palcoscenico.
R: Milano può dare maggiori servizi, ha due aeroporti, è più facile da raggiungere sicuramente per gli stranieri, ma devo dire d'altra parte che Vino-Verona-Vinitaly è un trinomio consolidato ormai da cinquant'anni. Io ne ho fatti almeno 30 e mi dispiacerebbe perdere un valore del genere. Del resto, esistono eventi come l'Aspen Food and Wine, oppure il Merano Wine Festival che, pur non essendo in luoghi facilmente raggiungibili, non vengono trasferiti altrove. Piuttosto, l'organizzazione del Vinitaly va pensata in modo che la fiera sia sia fruibile da tutti.
Parliamo di ProWein, c’è davvero un gap di competitività?
N: ProWein, per sua natura, ha una forte propensione globale e darà sempre più filo da torcere alle competitor. Vinitaly deve rinnovarsi. Deve avere la forza di organizzare un simposio mondiale, per mettere il sistema Paese al centro di un progetto internazionale: discutere di riscaldamento del pianeta, business, commercio, movimenti demografici. Deve ospitare i grandi del mondo in un dibattito che alzi il livello d'attenzione e attivi scambi e competenze dalla Napa Valley al Cile. In questo modo, Vinitaly si prende la leadership mondiale del vino e si eleva come sistema fieristico. ProWein è una fiera solo business, B2B ma senz’anima, il Vinitaly deve far tesoro del suo carattere - se vogliamo - ancora folcloristico.
R: Quest'anno il Vinitaly si è mosso bene per rafforzare l'idea di una grande fiera del vino italiano. E sono più che convinto che ci stia riuscendo. Anche lo scorso anno l'Italia ha dimostrato la propria forza, l'export che è cresciuto fino a 5,4 miliardi ce lo testimonia. Certamente, occorre lavorare tantissimo, perché il mondo delle fiere non sta vivendo una fase particolarmente felice. I produttori e gli operatori diventano più esigenti. ProWein, in particolare, diventa più attrattiva, ma Verona deve continuare così. Come dicevo, oggi esiste lo spazio per una fiera italiana. Occorre sicuramente avere coraggio, rinunciare a un po' di pubblico a favore di un migliore servizio.
Segnali dal mercato interno?
N: Il nostro gruppo (Santa Margherita; ndr) da 2 anni registra segni positivi belli robusti. Tocchiamo 12.500 clienti, pochi altri player hanno una struttura così capillare. Il mercato lo vediamo da vicino, siamo incoraggiati dai bilanci 2014 e 2015 e anche i primi segni del 2016 sono positivi. Sta cambiando il mercato, le vendite non decollano ma c’è un’inversione soprattutto in termini di fiducia, sia nel consumatore sia sull'Horeca. Il trader comincia ad acquistare di più, cerca nuovi prodotti. Insomma, non c’è più lo sconforto di qualche anno fa.
R: Sono positivi e di ripresa. Donnafugata è cresciuta nel 2015 e continua a crescere nel 2016 anche in Italia. La Sicilia è risalita sulla cresta dell'onda. L'Igt non perde terreno e le Doc crescono in doppia cifra. Inoltre, nel 2015, la Sicilia è cresciuta in Gdo in maniera superiore alla media della crescita di tutto il vino in Gdo. Questo significa che le attività che sono state fatte dai produttori siciliani, che si sono riuniti in Assovini e attraverso il Consorzio Doc Sicilia, hanno portato un vantaggio. Cresce sul mercato interno anche il Nero d'Avola, ma anche il Grillo come il Cerasuolo di Vittoria, il Frappato e tutte le piccole Doc. È una crescita organica di tutto il sistema.
Quale il mercato estero più sottovalutato e che può dare margini migliori?
N: Quello americano. Mi spiego: è il mercato più grande come dimensioni, ha lo sviluppo demografico più significativo, grazie al cambio generazionale (millennials) possiamo proporci a nuove generazioni molto interessate e con capacità di spesa. È un mercato ad altissima generazione di valore, la catena del valore se gestita con attenzione remunera molto bene tutti i player che vi operano a differenza di altre piazze. In Germania, esporti subito al punto vendita, in UK esporti sulle grandi catene e questo fa sì che lo strapotere della concentrazione di questi soggetti ti schiaccia e non ti consente di fare profitto. Dobbiamo investire in modo pesante sugli Stati Uniti. Lo dico alle istituzioni che hanno messo un decreto promozione sui Paesi terzi che non favorisce il consolidamento di posizioni forti sui primi mercati di esportazione, ma incoraggia investimenti su Paesi dove non siamo mai andati. Noi vogliamo continuare a dare una forte spinta e continuità d’azione sui mercati profittevoli come anche Canada e Giappone. Il nuovo decreto lo rende difficile.
R: Dal punto di vista della Sicilia il mercato dove facciamo troppo poco sono gli Usa. È il più grande mercato al mondo, molto complesso, con tanti Stati e regole anche diverse tra loro. In molti di questi l'Italia è più debole di quanto possa pensare la stragrande maggioranza dei consumatori, malgrado constati che siamo il primo fornitore degli Usa. In questo mercato ci sono ampi margini di crescita. E occorre dare merito al ministro Martina e agli organismi del Mipaaf perché hanno voluto considerare gli Usa come una federazione nell'ambito della promozione con l'Ocm vino. Una mossa importante. Solitamente, l'Italia è forte in California, Florida, New York, ma nel continente americano siamo ancora troppo deboli in troppi Stati. Una situazione analoga possiamo riferirla al Canada, dove non ci sono soltanto Quebec e Ontario, ma occorre crescere anche in British Columbia e Alberta.
Quali saranno le sfide calde del vino italiano nei prossimi anni?
N: Lavorare sulla valorizzazione dell’offerta. Il prezzo medio all’export è ancora troppo basso e questo non rende giustizia al valore tangibile e intangibile del vino italiano. Siamo lontani dal price point della Francia, abbiamo registrato una dinamica di riposizionamento ancora poco soddisfacente. Siamo cresciuti negli anni ma troppo poco, l’aumento è legato alla crescita dei costi di produzione proiettati sul mercato, non è l’effetto di un riposizionamento di tipo marketing. Dobbiamo posizionare in nostri vini su una categoria premium, perché abbiamo uno stile e una posizione forte e una straordinaria capacità di avvicendarsi sul cibo. Su questi aspetti dobbiamo fare un salto di qualità. Poi, sui mercati emergenti ad alta potenzialità, penso alla Cina, siamo ancora eccellenze in ordine sparso, non siamo in grado di proporci con un cappello comune, un messaggio ombrello che ci accomuna e ci rende riconoscibili. In Cina c’è bisogno di un Sistema Paese compatto e meno disordinato, dobbiamo trovare i fondamentali, raccontare anche l’abc del vino, mettendo a sistema non solo il vino ma anche altre eccellenze, moda, design e altri comparti come l’alimentare.
R: Guardo al lavoro di una regione per la quale nutro grande ammirazione: il Veneto, che è riuscito a costruire i fenomeni degli ultimi anni come Pinot grigio, Prosecco, Amarone, Ripasso e da ultimo Lugana. Guardo alla loro capacità di leggere il mercato. Questo deve essere da stimolo alle altre regioni che non sono riuscite a muoversi con la stessa abilità. L'Italia deve essere brava a tutelare i suoi grandi prodotti. Ed è fondamentale nella filiera trovare delle sintesi per lavorare a questa valorizzazione. Investire sui grandi brand (Barolo, Brunello, le grandi Dop) è una sfida dei prossimi anni. Un lavoro che deve fare anche la Sicilia, per cercare di aprirsi ai mercati ed evitare di subire la concorrenza de competitor. Il valore del vino italiano è esprimere il suo territorio. La partita del vino come commodity non possiamo giocarla: su Chardonnay, Cabernet non c'è gara. L'unicità dei nostri vitigni è legata a rese inferiori e costi di produzione più alti, quindi non riusciremmo mai a esser vincenti sul mercato. Invece, sarà strategico vendere, ad esempio, i vari Pinot grigio di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino, il Brunello di Montalcino e tutte le altre Dop sempre legandole alla zona di provenienza. È questo che darà valore al prodotto, facendolo diventare unico e difficilmente imitabile.
Se dovesse investire in una nuova zona italiana, dove punterebbe?
N: Intanto, confermerei gli investimenti nelle 5 regioni dove siamo presenti: rifarei tutto. Se penso ad altre zone, dico Piemonte, Abruzzo, alcuni distretti del Veneto come la Valpolicella. L’Italia offre tanto, un patrimonio con il quale si può lavorare con grandissimo potenziale di crescita. Noi continuiamo a investire nelle regioni dove siamo presenti, abbiamo terminato nuovi impianti in Veneto, a Potogruaro e nella zona storica di Conegliano Valdobbiadene; poi, progetti di sviluppo a breve anche in Franciacorta, mentre abbiamo ultimato da poco un grande progetto in Toscana (a Lamole). Confermiamo gli impegni presi e guardiamo con attenzione nuove proposte.
R: Punterei sulla Sicilia, terra che può dare davvero tantissimo. Non solo in terreni ma anche in vitigni da scoprire. Gli studi dicono che la Sicilia ne ha 70 ma ne conosciamo circa 10. Gli altri 60 sono da qualche parte e possono esprimere un terroir unico. Ci stiamo lavorando. Per il resto, sono molto attratto dalla viticoltura eroica, dai terrazzamenti che caratterizzano la Valle d'Aosta, l'Alto Adige, la Valtellina. Per la serie: prendere il meglio in condizioni difficili. E se pensiamo che la viticoltura sia l'unica forma di coltivazione capace di tutelare il territorio, dico che investirei in queste aree.
a cura Lorenzo Ruggeri e Gianluca Atzeni
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 14 aprile
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