Tredici canzoni urgenti, un album che sente tanto l’annata per dirla in termini vinosi: attualità, valori, paure. Si parte e si chiude con l’amore. Un'intervista sorprendente a Vinicio Capossela, amante dei vini naturali eppure non poco critico nei confronti del "movimento". Con l'artista, abbiamo cercato di fare chiarezza su quei calici "tra destra e sinistra".
In "Il Bene rifugio" di Vinicio Capossela ci ha colpito l’intreccio di vite vinifera, come una vecchia vigna richiusa su sé stessa. In un pianeta incerto dove “non è rimasta che follia” anche il vino è un bene rifugio?
La mia canzone vuole parafrasare il linguaggio economico, che attribuisce ad alcuni beni la capacità di resistere all’inflazione, alla svalutazione alla crisi. In generale si tratta di beni di lusso, a partire dall’oro, e certamente in questo senso, il vino, le grandi bottiglie d’annata mi dicono, sono uno dei migliori investimenti. Più valore hanno, più lo aumentano. Quando c’è paura e quando c’è crisi, bisogna scegliere che valore dare alle cose, scegliere a quali beni dare il valore di “rifugio”. Il bene rifugio di cui parlo è il bene attivo, l’amore che attiva la nostra partecipazione, che ci rinnova, che ci rivoluziona. Il rifugio in cui ritroviamo la forza per affrontare le battaglie che infuriano fuori dalla tenda. Amore e vino, sono due forze che si alimentano. L’amore come la vite ha bisogno di essere guidato, ha bisogno del sostegno per sollevarsi in alto, per arrivare alla luce e prendere forza dalla terra. Necessita di quella stessa dedizione, bisogna eliminare i parassiti dopo la pioggia. La vigna ha bisogno di essere “pompata”, come dicevano i contadini del sud mettendosi a spalla il verderame. L’intreccio degli amanti rimanda un po’ a quello della vite che produce frutto. Ma se dovessi naufragare tra i beni rifugio vorrei anche una buona riserva del vino che mi sa essere amico. Il vino che non stordisce e rinnova la forza e l’immaginazione. “Potere all’immaginazione” diceva uno slogan degli anni 70. Anche il vino può avere questa forza.
Com’è nata la tua passione per il vino. C’è stato un incontro, un viaggio o una bottiglia che ha tracciato la strada?
Credo sia un rapporto già iscritto nel mio nome di battesimo: Vini-cio, un nome senza onomastico, per il quale mio nonno uscì indignato dalla chiesa, perché non c’era nemmeno del calendario di Cristo. Ed era un uomo che quel Cristo lo aveva spesso sulle labbra mentre pompava la vigna, stretta e impervia sulla costa dell’Ofanto, e per il quale il suo vino era il maggior vanto. Uno di quei vecchi così ben descritti ne “La confraternita dell’uva” di John Fante. Un intreccio di confratelli la cui consanguineità non veniva dall’aver bevuto lo stesso latte, ma lo stesso vino: il chiaretto di Angelo Musso, una pozione in grado di vincere tutto, artrosi, malumori e bancarotte. Ho avuto familiarità col vino da sempre, ma allo stesso tempo, con gli anni ho cercato di interiorizzare quel limes che faceva dividere i greci dai barbari: la capacità di dominare il vino per non finirne dominati. Allungare con acqua mescendo i crateri, come il barbaro Polifemo non sapeva fare.
Che cosa ricerchi quando stappi?
La lietezza d’animo. Come dice un detto greco: kalo’ krasi, kali kardià, ke kali parea. Buon vino, buon cuore, che buona compagnia. A me il vino fa cercare la buona compagnia. La compagnia dei pensieri, il simposio tra amici, la confidenza. Il rifiato dopo la giornata. La rigenerazione. Il ricreo. Nascere una seconda volta.
In La parte del Torto parli di “vini naturali omologati individuali”. Si è persa per strada l’originalità del gusto? In vigna o in cantina c’è ancora qualcuno seduto dalla parte del giusto in grado di regalarti un’emozione?
La canzone fa riferimento a una contrapposizione fatta anche di luoghi comuni tra la destra populista e la sinistra ottimata “radical chic”, che tra i suoi cliché ha anche quello dei vini naturali. Che possono rientrare in quel discorso di attenzione all’ambiente, al cibo e alla natura che solo chi ha un certo reddito si può permettere. La gauche caviar, può essere la sinistra vini naturali… Come diceva Pasolini la maggiore omologazione culturale si trovava tra quanti si pretendevano progressisti, rivoluzionari e anti borghesi. Ed un po’ vero che chi si imbelletta di cultura, me compreso, finisce per fare attenzione a certi temi anzi che altri. Temi che si scopre alla fine individuali e non sociali. Parafrasando Ginsberg, si potrebbe dire con un po’ di ironia che ho visto le menti migliori della mia generazione perdersi nel nettare dei vini naturali mentre intanto l’estrema destra si prendeva l’elettorato e il paese.
A proposito di contrapposizioni tipicamente italiane, gli stimoli del movimento hanno spaccato il settore in due parrocchie: vino naturale e vino convenzionale. Chi ha vinto alla fine?
È un po’ come contrapporre il vinile alle piattaforme digitali. La grande massa del mercato è fatta dai vini convenzionali e non potrebbe essere altrimenti. Un vino naturale non può essere prodotto in grandi quantità e con costi competitivi. E di sicuro non può piacere a tutti. Il vino naturale richiede anche una capacità di accogliere il difetto che fa parte della natura. Il grande Gianni Mura mi disse una volta: ma sei matto a bere vini naturali? Non lo sai che il vino naturalmente diventa aceto? E in effetti spesso c’è una spunta acetosa in questi vini di “fiore e feccia”. Vini per i quali un amico mi ha dato la più spassosa definizione: “spugna di Cristo”, con riferimento alla spugna imbevuta d’aceto che fa parte del racconto della passione. Mi rendo conto che ci vuole una abitudine e forse anche una rieducazione al gusto, ma una volta che ci si è abituati non si riesce più a tornare indietro. O almeno a me non è riuscito più.
La cattiva abitudine alle emozioni si prende la scena nel mondo del tuo nuovo album. Troviamo un pubblico apatico, con il culo sul divano. C’è qualcosa che possiamo imparare da chi coltiva la terra e dalla capacità del vino di avvicinare le persone?
Più che di cattiva abitudine parlavo di cattiva educazione. È vero che spesso la violenza nasce dalla mancanza di lavoro sulla gestione dell’emozione. L’educazione passa per l’apprendimento e la pratica, non soltanto per lo studio. Credo che tutti i lavori in cui si passa il testimone, in cui è necessario ascoltarsi, dalla musica all’agricoltura possano avvicinare le persone. La coltura della terra è forse quella in cui maggiormente il senso di comunità attraversa le generazioni. Dunque quella in cui un ascolto è più necessario, a partire dalla materia prima: la terra. “Sul divano occidentale” è un po’ la nostra condizione di illusoria partecipazione alla Storia che ci arriva in forma di continua sollecitazione a cui si risponde in maniera individuale, atomizzata. Questa separazione può indurci a una sorta di fatalismo esausto. Il lavoro della terra credo richieda una partecipazione attiva, una adesione a una storia minore che si fa tutti i giorni, in alcune occasioni anche in maniera comunitaria.
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