Siamo nel Collio, in una terra di confine nel Nord Italia, per raccontare del primo Tre Bicchieri del Gambero Rosso assegnato all’azienda Paraschos, ottenuto con il Collio Friulano Kaj Riserva ’21. L’azienda del Friuli Venezia Giulia porta un nome di origine greca: «Mio padre Evangelos è venuto a studiare a Trieste negli anni Settanta. Per pagarsi gli studi ha aiutato nel ristorante di famiglia di mia madre. Alla fine ha preferito l’enogastronomia alla carriera nell’ambito farmaceutico», racconta Alexis Paraschos.
L'esordio "convenzionale"
L’azienda nasce nel 1997, pochi anni dopo l'accordo di Schengen che ha permesso maggiore libertà di spostamento tra i confini, incluse Italia e Slovenia. «Abbiamo acquistato all’asta i primi tre ettari. Appezzamenti che si trovavano tra San Floriano e Oslavia. Tuttavia, è stato mio nonno il primo a produrre vino che vendeva nel suo ristorante».
Una realtà vitivinicola, ma prima di tutto un'attività di famiglia che sin dagli albori ha visto Alexis e Jannis entrare nella produzione. «Ho studiato economia, mio fratello si è fermato al diploma e ha approfondito con viaggi, corsi e pratica il lavoro di cantina e di vigna». Pochi anni ed esce la prima annata, imbottigliata nel 1999. Gli esordi sono connotati da spazi molto ristretti, in una piccola cantina, che li obbligano a usare contemporaneamente vasche inox, sistemi di raffreddamento e pratiche come filtrazione, stabilizzazione «per vendere il vino entro l’anno successivo. Solo una piccola parte veniva prodotto in una piccola cantina interrata dove abbiamo sperimentato con legni e modalità diverse. Prove che ci hanno portato a fare i vini di oggi».
La nuova cantina, il nuovo percorso
C’è un punto che rappresenta un prima e un dopo per i Paraschos. Nel 2003, con la nuova cantina si cambia tutto: la produzione vede l'uso di soli lieviti indigeni. «Le fermentazioni spontanee sono sempre state un pallino per mio padre. Le trovava più affascinanti e complesse». Sempre nello stesso periodo si avvicina anche alle macerazioni con le bucce. Sono gli anni di Gravner e Radikon, che per Evanghelos rientrano nella cerchia di colleghi e amici che avevano iniziato a vedere il grande potenziale della macerazione «intesa a estrarre solo parti nobili, tannini maturi, nobilitando il vitigno».
Oggi diventato quasi un trend, l'idea di vino macerato è cambiata molto nel tempo. «C’è una grande richiesta oggi perché i gusti e le richieste del mercato si modificano. Prima per “macerati” s’intendeva la Ribolla e pochi altri vitigni che davano un vino con corpo e struttura, frutto di una rigorosa selezione di uve che provenivano da vigne importanti. Poi è passato ad essere riutilizzato per una pratica usata un po' dappertutto. Questi ultimi sono vini che prendono un po’ il posto birra artigianale di qualche anno fa per la loro maggiore rapporto con l’agricoltura locale. Resta di fatto che i luoghi dei macerati di alto livelli sono quelli storici originali legati a grandi cru».
I vini di Paraschos oggi
La produzione dell'azienda si avvale di tanti “senza”: senza lieviti industriali, senza diserbanti e, in cantina, senza aggiunta di solforosa. «Possiamo definirli vini “al naturale” per andare un po' oltre questo termine che a tanti non piace». Per Alexis "naturale" è un vino fatto da (quasi) sola uva e «si dovrebbe partire da uve - almeno - biologiche o biodinamiche, per arrivare a una vinificazione che al massimo prevede solforosa».
Parte tutto da un uva di qualità, dove il tocco dell’uomo è leggero, e quello che poi finisce in bottiglia è un vino corretto, senza difetti. «Esistono distributori e importatori naturali che ci hanno scartati perché a detta loro “i vini erano troppo puliti”. Il mercato in questo momento ha un po’ le idee confuse. C’è chi definisce inesistente il vino naturale, chi ripudia i vini più “tecnici”. Io credo ci siano luoghi dove è possibile restare nel naturale ed avere grandi risultati e alcune zone che per forza si è costretti ad agire in cantina. A volte talmente tanto che non si può parlare di naturale. Sono situazioni forzate a monte dal mercato in cui sono state piantate viti dove non dovevano essere piantate».
Tuttavia, il futuro, nonostante i cambiamenti climatici e le annate sempre più complicate, sembra positivo per il vigneto italiano. «Vedo nuove cantine che hanno aperto ragazzi giovani che stanno tornando alle vigne abbandonate dei nonni. È un bene perché dovremmo dare più spazio nei discorsi a vigna e vitigno, che sono centrali nella produzione del vino».