«Accogliamo con favore l’apertura italiana ai vini dealcolati e siamo pronti a portare la produzione in Italia». Lo dice al Gambero Rosso Massimo Romani, amministratore delegato di Argea, commentando la presentazione della bozza del decreto di Lollobrigida che darebbe il via libera alla tipologia anche nel Belpaese. Argea, ovvero il più grande polo vitivinicolo italiano (con un giro di affari di 450 milioni di euro nel 2023), già dallo scorso anno ha scommesso sulla tipologia, con il lancio a Vinitaly della sua prima Antologia no-alcol (otto vini provenienti dai diversi territori dove è presente il gruppo, dalla Sicilia all’Abruzzo), la cui produzione oggi ammonta a mezzo milioni di bottiglie, ma come molte altre aziende per entrare nel mercato è stata costretta ad appoggiarsi ad un partner tedesco specializzato. Adesso tutto potrebbe cambiare.
Iniziamo con una domanda a bruciapelo: è giusto chiamare vini i prodotti dealcolizzati?
Assolutamente sì, perché vengono prodotti attraverso il processo completo di vinificazione. Quindi è giusto dare una comunicazione corretta.
Dopo tanti tentennamenti da parte del Governo e, in particolare, del ministro Lollobrigida, come avete accolto la notizia della bozza di decreto che apre alla tipologia?
Molto bene. Era un decreto auspicato che rappresenta un’importante opportunità di mercato.
Andando nei dettagli del decreto, ci sono ancora dei punti da chiarire. In primis, la questione accise…
Esattamente. Non è chiaro se l’accisa sia prevista o meno. A nostro avviso, se l’alcol venisse riutilizzato e commercializzato l’accisa ci starebbe. Diverso il discorso se viene considerato come rifiuto. Ad ogni modo credo che la questione si possa risolvere strada facendo.
La seconda questione riguarda, invece, il luogo di produzione: diverso da quello utilizzato per la produzione vitivinicola, si legge nella bozza ...
Se si parla della stessa cantina con ambienti segregati e accesso controllato, non ci troverei nulla di sbagliato. Se, invece, parliamo di un luogo a sé e, quindi si dovrebbe prevedere la costruzione di un edificio ex novo se non addirittura rivolgersi ad una distilleria, allora sarebbe più complicato soprattutto per le cantine più piccole.
Al di là delle modalità, nel vostro caso, sareste pronti a spostare la produzione in Italia?
L’idea - chiariti questi punti - sarebbe quella.
Al momento, invece, in attesa del via libera italiano, producete i vini dealcolati in Germania. Con quali difficoltà?
Costi maggiori in primis, legati al trasporto, ma non solo. La maggiore difficoltà - trattandosi di un learning by doing - è quella di andare a suggerire miglioramenti in casa d’altri.
Quindi, produrre i dealcolati in Italia avrebbe un impatto importante anche sulla qualità dei prodotti…
Certo. Credo che oggi le possibilità ci siano, come abbiamo visto all’ultimo Simei. Una volta che c’è il via libera, lavorare verso il perfezionamento diventa naturale.
A quel punto si poterebbe pensare di andare oltre i vini comuni e consentire la deacolizzazione anche per Doc e Igt?
Se guardiamo al nostro competitor più importante – la Francia – il via libera sui vini Igt (per i vini parzialmente dealcolati; ndr) c’è già. E questo sarebbe un grande passo in avanti. Per esempio, noi dealcolizziamo un 100% Primitivo di Manduria (Doppio Passo), ma non possiamo dichiararlo. Per le Doc magari è ancora prematuro chiedere l'estensione, ma sulle Igt ci penserei.
Questo aprirebbe anche alla possibilità di attingere alle risorse europee per la promozione…
Beh, se lo farà la Francia.
Cia, commentando il decreto, ha chiesto di mettere a disposizione risorse ad hoc, che sappiano accompagnare in modo strutturato le aziende del comparto nei processi di dealcolazione.
Anche quella sarebbe un’idea valida per migliorare la qualità: è un segmento in cui la ricerca è fondamentale per ottenere prodotti all'altezza.
Ad oggi siete contenti dei risultati ottenuti? Ci son tipologie per cui è più facile preservare la qualità?
Senz’altro bollicine e bianchi. Il rosso è ancora una sorpresa. Con più ricerca si può pensare ad abbassare ulteriormente il residuo zuccherino. L’importante, intanto, è partire come sistema Paese.
Nell’esperienza maturata in questo anno di produzione dei vini no alcol, quali sono i mercati più interessati?
Prima di tutto Germania e Francia, ma anche Paesi del Nord. Non li vendiamo al momento negli States, ma nell’ultimo giuro di ricognizione, tutti i clienti hanno voluto saperne di più. A livello di consumatori abbraccia un un’ampia fascia: da donne incinte a chi non può bere momentaneamente vino ma non vuole rinunciare al gusto, fino a chi si avvicina per la prima volta al prodotto. Quanto diventerà grande questa domanda, al momento non sono in grado di dirlo, ma è una grande opportunità.
È tempo di bilanci: come chiuderete questo 2024 così complicato per tutto il comparto vino?
Inutile negarlo: è stato e sarà un anno in tensione fino al 30 di dicembre. Prevediamo una chiusura leggermente positiva, potendo contare sulla differenziazione. La forza del nostro gruppo è quella di rappresentare tanti territori e tipologie di prodotti: se qualcuno soffre, l’altro va meglio.
Nello specifico a soffrire sono i rossi?
Diciamo che sono la tipologia su cui abbiamo posto più attenzione, dal momento che il gusto del consumatore sembra più affaticato nei confronti dei vini corposi ad alta gradazione alcolica. I grandi rossi restano appannaggio dei veri appassionati e degli intenditori, mentre il gusto comune si è spostato verso vini più beverini. E di questo dobbiamo tenerne conto.
Con quali strategie?
Nel nostro caso, abbiamo incrementato le percentuali di produzioni di vini bianchi e bollicine e abbiamo lavorato sui rossi per ottenerne una gradazione alcolica più friendly.
In quest'ottica aumenterete anche la produzione dei vini dealcolati?
Nel 2024 siamo partiti bassi, rispetto ai nostri numeri: con 500mila bottiglie. Dobbiamo prima capire il ritorno economico, ma possiamo già dire che ad oggi i nostri stock di no alcol sono pari a zero.