Perché l’anfora è diventata un fenomeno di moda? Come mai è così connessa al concetto di vino artigianale? Non sarà eccessivo parlare di rivoluzione? Ce lo siamo chiesti al primo evento dedicato ai contenitori di argilla organizzato da Merano WineFestival e Vinitaly a Verona presso le Gallerie Mercatali: un'esperienza che ci ha portato a riscoprire la Georgia e la sua storia enologica, ragionando con produttori, giornalisti e master of wine. Le varianti in pista sono tante: argilla, cocciopesto e grès, così come numerose sono le interpretazioni nella fattura, nella forma e negli obiettivi che si vogliono ottenere. Vien da sé che anche il panorama dei vini risulta piuttosto complesso, con diversi chiaroscuri.
Le qvevri: l'origine delle anfore
Il nome della rassegna, Amphora Revolution, richiama il famoso titolo del libro Amber Revolution, scritto nel 2017 dal giornalista inglese Simon J. Woolf. E qui si crea una prima connessione che, se da un lato rende facilmente individuabile il nesso tra contenitore e stile, dall'altro finisce per stritolare come in una morsa le scelte enologiche dei produttori che hanno dedicato una parte della loro produzione – ma anche tutta in diversi casi – ai vini in anfora. Il testo di Woolf racconta la sua personale Epifania nei confronti dei vini cosiddetti orange o, rifacendosi al titolo, ambrati. Parliamo di vini bianchi che rimangono sulle loro bucce (ma anche i rossi finiscono in anfora). A seconda del tempo di sosta il vino risulterà più pieno, denso, più tannico e dal colore intenso. Si tratta quindi di un procedimento enologico – la macerazione – non necessariamente collegato a un contenitore vinario. Eppure, il racconto di questi bianchi vinificati come se fossero dei rossi ha incontrato quasi da subito il “contenitore del cuore”, l'anfora. L'accreditamento storico è prestigioso: in Georgia, nella zona del Caucaso, le qvevri, le anfore interrate, hanno sempre ospitato il vino e le sue bucce. Avendo a che fare con un materiale poroso come l'argilla, le fecce avevano il compito di proteggere il vino dall'ossidazione. Da qui anche le lunghe soste e le conseguenti macerazioni. Difficile datare con precisione le origini del metodo, ma gli storici parlano di seimila-ottomila anni. La popolarità invece è di matrice italo-slovena e porta il nome di Josko Gravner, il produttore di Oslavia che ha fatto conoscere nel Paese e nel resto del mondo le qvevri.
Macerazioni ricalibrate
La macerazione sulle bucce si è accorciata e anche di tanto negli ultimi anni. Basta un giro tra i produttori presenti alla rassegna Amphora Revolution per capire che “la via italiana” non segue necessariamente l'equazione anfora=macerazione. Michele Bean ricopre il doppio ruolo di produttore di vino e di anfore. È viticoltore in Friuli con l'azienda Roi Clâr in provincia di Udine e si occupa di contenitori vinari in Umbria con la società Sirio. La sua regola, in entrambi i mestieri, è chiarezza: «Uso l'immagine delle anfore sulle mie etichette – spiega Michele Bean – perché dovevo farmi conoscere, ma il mio obiettivo è toglierle per mettere al centro il vino e basta. Io ho solo un macerato ed è il Pinot Grigio perché sennò non avrebbe colore. Per il resto tutti i miei vini fanno fermentazione in acciaio e sostano un anno in anfora, ma solo dopo essere stati sfecciati». Le anfore sono le sue, quelle a marchio Sirio, composte da un impasto di argille a matrice ceramica frutto di nano ingegneria: puntano a conferire la giusta porosità all’anfora e quindi assicurare un’ossigenazione ottimale. Vengono realizzate con gli stampi e sono prodotte in sezione aurea: «Uso l'anfora perché lavoro con vigneti anche molto vecchi, dai sessanta agli oltre cento anni di età, ed è l'unico modo per preservare gli aromi delicati del frutto». In effetti il suo Friuli Colli Orientali Friulano 2021 è teso, ma anche cremoso, molto lungo e dalle note delicate di frutta estiva. Nasce da un vigneto del 1918.
Gusti più affini ai giovani
A una limpidezza di intenti e di prodotto arriva anche Elena Casadei, sebbene segua vie diverse. La giovane viticoltrice toscana ha un progetto tutto suo che si distingue da quello familiare. Si chiama Le Anfore perché ha scelto solo questi contenitori, da un lato qvevri georgiane e dall'altro anfore di terracotta prodotte da Artenova. Con queste lavora sulle uve delle tre diverse tenute. Sul cannonau dell'azienda sarda, ad esempio, la fermentazione è affidata alle qvevri per un mese, l'affinamento invece va avanti per 6-7 mesi nelle giare realizzate all'Impruneta. Il suo Isola di Nuraghi 2022 è armonico e croccante e, nonostante l'estrazione importante, il colore è luminoso e trasparente. È un vino che sa tantissimo di ciliegia. Metodi antichi scelti da una trentenne. «Utilizzare strumenti noti già millenni fa – spiega Casadei – per me vuol dire connettere il passato con la ricerca scientifica di oggi: credo che questo sia un messaggio che faccia breccia sui più giovani». Giovane e altrettanto laico nell'approccio tra anfora e macerazione è Luca Leggero dell'omonima azienda del Canavese che mette in anfora l'Erbaluce di Caluso Rend Nen, le cui uve vengono vinificate in anfore di terracotta da 16 e 7,5 ettolitri per circa sei mesi: «Abbiamo scelto le anfore di Tava, parliamo quindi di ceramica e non di argilla, ovvero di un materiale più tecnico in fatto di controllo della microssigenazione. L'obiettivo è quello di preservare un'uva delicata che cresce su terreni sottili, fatti di sabbia su colline moreniche». Sottile e verticale è questa etichetta 2021 che colpisce per i profumi di melone, susina e scorze di cedro e che rivela anche note salmastre.
Anfore come un ventre materno
I discorsi intorno alla Georgia e alle tradizioni enologiche caucasiche sono più numerosi del vino che di fatto ne deriva. Durante uno dei convegni svoltisi nella due giorni di Amphora Revolution, David Maghradze, a capo della divisione governativa National Wine Agency of Georgia, ha sottolineato che su un milione e ottocento mila ettolitri di vino, solo il due-tre per cento viene prodotto secondo l'antico metodo delle anfore interrate e coibentate con cera d'api, diventato Patrimonio intangibile dell’Umanità dell'Unesco nel 2013. C'è, dunque, un messaggio ben più forte dei numeri. Lo sostiene il professore Attilio Scienza, tra i maggiori esperti di viticoltura ed enologia, che parla di miti, archetipi e addirittura di “ventre materno” riconducibile ai vasi vinari di argilla. «In un contesto in cui l'alcol è tornato a far paura – spiega Scienza – questa può essere esorcizzata con la cultura, spiegando che il vino si fa da millenni e si è sempre bevuto. L'anfora permette di superare anche la prevenzione verso un’enologia percepita come interventista. Non a caso il mondo dei vini in anfora è in parte assimilato al movimento dei vini naturali».
"Non banalizzare anfore e macerazioni"
Andrea Lonardi, Master of Wine, sposa anche lui l'idea dell'anfora come “messaggero”, a patto però che l'uso dello strumento non venga banalizzato. «Sempre più produttori – spiega Lonardi – scelgono questi contenitori per andare incontro a un gusto contemporaneo che, al contrario di quanto avveniva negli anni passati, vuole sempre meno il legno. Reggono queste due grandi contrapposizioni, da un lato il vino industriale che si riconosce negli strumenti convenzionali – legno e acciaio – dall'altro il mondo artigianale che manda messaggi diversi ai consumatori. Ecco, l'anfora è uno di questi messaggi. Personalmente non credo né che il vino industriale sia fatto in acciaio né che il vino artigianale sia fatto in anfora: esistono i vini fatti bene e i più giovani lo hanno capito perché sono più connessi all'autenticità».