Le bevande low alcol italiane spopolano negli Usa fino a rappresentare il 28% del totale vini importati. Una buona notizia se non fosse che ad arricchirsi grazie al nuovo trend non sono le imprese del Belpaese. La produzione e l’imbottigliamento avvengono sì in Italia, ma i gruppi che commercializzano questi prodotti (e che si assicurano l’80% del valore delle vendite) sono statunitensi. Uve italiane, quindi, ma fatturati no.
Un business da 651 milioni di dollari
La denuncia è di Unione Italiana Vini che attraverso il suo Osservatorio ha quantificato il business in 651 milioni di dollari tra grande distribuzione e retail americani. Vini italiani o prodotti a base vinicola venduti a un prezzo medio allo scaffale di quasi 16 dollari al litro, più del doppio rispetto alle omologhe bottiglie statunitensi (7 dollari) e addirittura il 5% in più al confronto con la media dei vini tricolori tradizionali.
Si tratta di bottiglie, ma anche lattine, da 7 gradi in giù, quasi totalmente sconosciute nel Belpaese, ma sempre più presenti tra gli scaffali Usa. L’origine italiana, regina del mercato (prima perfino dei prodotti statunitensi), è rintracciabile - tra i fermi - soprattutto nei rossi (39%, a 254 milioni di dollari), seguiti dal Moscato (103 milioni) e dai rosati (23 milioni).
La cavalcata dei prodotti no e low alcol
Il fenomeno dei vini a bassa gradazione è relativamente giovane, ma nell’ultimo anno è stato protagonista di una incredibile cavalcata che, grazie al cambio di gusti tra le varie generazioni ed etnie del Paese, li ha portati a essere una scelta non più secondaria rispetto al vino classico.
Discorso a parte meritano i no alcol. Si tratta di vini che, se è vero che partono da numeri bassi, nel giro di due anni hanno raddoppiato le vendite negli Usa, attestate oggi – secondo l’Osservatorio Uiv – a 62 milioni di dollari. Tuttavia, i prodotti italiani a zero alcol sugli scaffali statunitensi sono pochi, le vendite ammontano ad appena 4,5 milioni di dollari (+39% sul 2022) con un prezzo medio di 14 dollari al litro. Una quota residuale della presenza italiana (il 7% del totale), che diventa minuscola se si considera che il 90% delle vendite è imputabile a una sola azienda, per giunta americana, che acquista in Italia i prodotti finiti e li commercializza con marchio proprio. Il resto è appannaggio di altri Paesi: Spagna, Germania e Francia, che, al contrario dell’Italia, hanno una regolamentazione interna che gli permette di produrli.
L’Appello di Uiv: “Il Governo proceda con il via libera ai vini dealcolati”
Il paradosso, che vede l’Italia protagonista di un business non suo, ha riportato sotto i riflettori la questione dei vini totalmente o parzialmente dealcolati, la cui produzione è al momento vietata in Italia.
«Il segmento low-alcol» sottolinea il segretario generale di Uiv Paolo Castelletti «può rappresentare un’opportunità anche e soprattutto là dove il prodotto tradizionale fa fatica, come dimostra il record ventennale di vino rimasto in cantina al termine della scorsa campagna vendemmiale. Oggi per fare vini low alcol i produttori italiani hanno tre strade: utilizzare il vino come base per bevande aromatizzate, produrre vini da mosti parzialmente fermentati, oppure - in caso vogliano procedere con la dealcolazione - delegare il processo produttivo nei Paesi europei diretti competitor».
Proprio il segmento dei vini dealcolati sembra quello più interessante in ottica di medio termine, in grado di per intercettare le tendenze salutistiche in atto nel Paese, sempre più orientato a ridurre l’assunzione non solo di alcol ma anche di zuccheri. Una categoria, quella dei Nolo (low e no alcol), da molte imprese considerata a maggior potenziale di crescita qualitativa.
Senza legge, l'Italia resta fuori dal business
«Da tempo Uiv sollecita un intervento normativo per disciplinare una produzione che l’Unione Europea ha autorizzato da più di due anni» è la denuncia di Castelletti «Al netto delle bozze di decreto - su cui abbiamo evidenziato le perplessità del settore vino (visto che coinvolge principalmente le distillerie; ndr)- siamo gli unici a non aver ancora recepito il regolamento Ue, con evidenti svantaggi competitivi rispetto ai produttori comunitari. Riteniamo quindi che il Governo debba trattare con la massima urgenza questo tema non più derogabile, definendo con chiarezza e assieme al comparto un perimetro chiaro di azione».