In attesa del decreto promesso dal ministro Francesco Lollobrigida, le cantine italiane provano a ragionare sull'opportunità offerta dai vini dealcolati e a basso contenuto alcolico (segmento no-low), che finalmente si potranno produrre anche in Italia. La scelta del Masaf di presentare la bozza di testo alle associazioni di categoria porta a un altro livello il dibattito sulla categoria di vini, ammessi in Europa col Regolamento (Ue) 2021/2117. Una buona fetta della grande distribuzione organizzata (gdo) si era già espressa poche settimane fa dalle colonne del settimanale Tre Bicchieri sulle possibilità per le imprese e per la distribuzione di intercettare il trend; e prima lo avevano fatto con insistenza importanti sigle del vitivinicolo come Unione italiana vini. Al recente Simei, non si è parlato d'altro: la fila di operatori davanti alle macchine per la dealcolazione sono state una riprova. E anche il recente salone internazionale del vino sfuso (Wbwe) di Amsterdam ha dato ampio spazio ai cosiddetti prodotti nolo.
Il punto di vista delle imprese
Se il confronto tra sigle sindacali è ancora aperto (vedi il punto di vista di Assodistil), la strada resta comunque tracciata, così molte cantine finora alla finestra potranno scegliere se entrare dal 2025 in questa nuova dimensione che, per l'Italia, a molti può suonare come un tradimento della storica vocazione vitivinicola e della cultura territoriale, mentre ad altri appare come un'ancora di salvezza per risolvere problemi di sovrapproduzione e andare incontro ai moderni consumatori. Cantine e Consorzi, sentiti dal settimanale Tre Bicchieri, oscillano tra lo scetticismo e la speranza di trovare alternative ai capricci del mercato. E c'è anche chi si spinge oltre i dettami del decreto, non escludendo in un futuro prossimo le possibilità derivanti dalla dealcolazione dei vini Igp, oggi non prevista.
Il problema giacenze
Produrre vini dealcolati può essere, quindi, un'occasione soprattutto per quei territori con problemi di giacenze dei vini. Alcune cooperative, che vendono buona parte dei volumi in formato sfuso, vedono con favore tale soluzione. Carmine Coletta, presidente di Cantina Solopaca (realtà beneventana da mille ettari, con 600 soci viticoltori e oltre 100mila ettolitri annui), lo dice chiaramente: «Se fare i dealcolati servirà ad assorbire la produzione viticola in eccesso e garantire così un reddito ai nostri soci occorrerà tenerne conto. Non possiamo chiuderci negli integralismi. Tuttavia, ritengo che in Italia non siamo né pronti come mercato per questi vini e, allo stesso tempo, occorre tenere presente che il contesto generale in cui il consumo di vino tra la popolazione è in costante calo da anni».
La cooperativa campana, che chiuderà il 2024 con un discreto bilancio vendite, dopo due annate complicate, aveva sondato l'opportunità di fare un investimento sulle attrezzature per dealcolare i vini: «Non è semplice, si parla di alcune centinaia di migliaia di euro e di investimenti impegnativi. Sarebbe opportuno - è la proposta di Coletta - che lo Stato prevedesse contributi, a fondo perduto in alta percentuale, per costruire gli impianti, attraverso un apposito bando di gara che sia aperto a tutte le cantine. Penso sia il corretto modo di accompagnare le aziende vitivinicole verso la modernizzazione».
Unire le forze per sostenere i costi degli impianti
Una linea che non dispiace alla grande realtà siciliana Colomba Bianca che vedrebbe bene l'unione di forze, di più realtà produttive, per ottenere i finanziamenti utili a costruire gli impianti di dealcolazione. La cooperativa, alla luce di un'annata scarsa come la 2024, sommata ai segni meno del 2023, ad oggi non avrebbe alcunché da dealcolare: «Non c'è più vino a disposizione da ottobre - racconta il presidente Leonardo Taschetta - ma devo dire che se si potessero destinare degli esuberi alla dealcolazione sarebbe un'opportunità. Penso, in particolare, ai Paesi islamici. Ha fatto bene l'Italia a decidere di produrli, perché altrimenti si lascerebbe lo spazio ai competitor internazionali, ma non penso che chi consuma dealcolati sostituisca il vino tradizionale».
Taschetta non preclude l'ipotesi di intervenire anche sui vini a denominazione: «Mettere troppi paletti non fa bene. Altrove sono molto più liberisti e ho l'impressione che se noi facciamo i puristi alla fine perdiamo la sfida». Meglio il low alcol del no alcol, secondo il presidente di Colomba Bianca: «Un vino da 7 gradi, frizzante, potrebbe intercettare consumatori amanti della birra. Ne ho provati in giro per il mondo e mi pare funzionino. Anche noi abbiamo fatto delle prove ma bisogna partire da una buona qualità del vino di base. Dealcolare - conclude - non deve essere certo un mezzo per disfarsi del vino cattivo».
Scetticismo sardo
Molto scettico Sandro Murgia, alla guida di Cantine di Dolianova, la più importante cooperativa della Sardegna, che prevede una chiusura d'anno a +10% di vendite. «Al recente Simei abbiamo degustato dei dealcolati che non chiamerei vini perché, se sono piacevoli al naso, al palato mancano di qualcosa. Tuttavia, anche se come cooperativa non abbiamo ancora pensato a produrli, non dobbiamo sottovalutare questo segmento. Vedremo cosa accadrà e valuteremo in futuro». Il presidente, appena riconfermato (al settimo mandato), ricorda come il sistema da cui nascono i dealcolati sia collegato al mondo delle bevande edulcorate, che piacciono molto ai giovani consumatori: «Ritengo si debba fare un lavoro migliore sulla comunicazione - osserva Murgia - e una più efficace educazione al consumo del vino tradizionale. E lo si dovrebbe fare basandosi su una storia millenaria come quella del vino italiano».
L'esperienza di Cantine Sgarzi
Al di là degli scetticismi, l'imminente pubblicazione del decreto potrebbe anche dare slancio a chi quei vini li produce già. Come è il caso di Cantine Sgarzi, realtà emiliano-romagnola che ha in Francesca Sgarzi una delle esponenti della nuova generazione. Da oltre 15 anni, l'azienda produce bevande no-low alcol e da 5 anni il vino dealcolizzato è l'ingrediente principale. «Finalmente vediamo delinearsi un quadro normativo che regolamenti questo segmento, che potrebbe diventare un asset strategico per la nostra attività. E noi siamo pronti a fare degli investimenti perché vediamo anche in Italia un terreno fertile». Nel 2024, la cantina ha prodotto circa 500mila bottiglie di prodotto analcolico (con meno di 0,5 gradi), con un trend in aumento. La pubblicazione del decreto Masaf «toglierebbe quella continua incertezza e difficoltà organizzativa/produttiva che ci limita enormemente a livello di impresa e porterebbe a una riduzione dei costi e maggiore sostenibilità ambientale».
Oggi Cantine Sgarzi, come spiega l'imprenditrice, non avendo un impianto di dealcolazione a Castel San Pietro deve trasportare la massa di vino sfuso, dealcolare in Spagna, Francia o Germania, dove la dealcolizzazione è legalizzata, e ritrasportare il prodotto in Italia. «Oppure - spiega - acquistare il prodotto dealcolato all'estero, di origine Eu e non made in Italy, impoverendo così la catena del valore». I mercati più sensibili, secondo Sgarzi, sono Nord Europa, in primis Svezia e Germania, poi Stati Uniti e Asia con Cina e Corea del sud «dove c'è una crescente consapevolezza e domanda per bevande a basso contenuto di alcol o senza alcol». E sulle Dop e Igp, Francesca Sgarzi ha un personale punto di vista particolare: «Sarei favorevole a dealcolare gli Igt. Sarebbero una buona base per fare buoni vini dealcolati».
I vantaggi concreti per la Doc Prosecco
Non ci sono solo le cantine ma anche i Consorzi di tutela delle grandi Dop a osservare con attenzione questo importante cambiamento per il vino italiano. Il Consorzio della Doc Prosecco, guidato dal presidente Giancarlo Guidolin e diretto da Luca Giavi, intravede una valvola di sfogo per una parte delle migliaia di ettari di uva glera fuori dalla denominazione. Posto che sui dealcolati la battaglia si è «persa quando si è deciso di chiamarli vini sarebbe stato assurdo - spiega Guidolin - lasciare l'opportunità ad altri Paesi e non all'Italia. Per noi, in ogni modo, l'apertura ai dealcolati potrebbe essere una soluzione per quelle superfici che insistono sul territorio e che oggi sono escluse dal potenziale produttivo della Doc Prosecco». Quanto agli sbocchi di mercato, secondo il direttore Giavi, non si tratta tanto di geografia globale quanto di «crescita trasversale in relazione all'età di alcune generazioni. Inoltre, i dealcolati non ci appaiono in competizione col vino convenzionale. Se poi tale fenomeno continuerà è tutto da verificare». Difficile, infine, pensare oggi a un futuro Prosecco Dop dealcolato (il decreto non comprende le Dop), ma un Consorzio moderno come quello veneto-friulano non può escludere totalmente un'idea, un'utopia che sarebbe molto divisiva, che non è - si badi bene - oggetto di discussione in Cda: «In quel caso, dovremmo fare una profonda analisi, ma è chiaro che l'argomento non è in agenda». Chissà.
Il Chianti Docg non chiude le porte
Un'altra denominazione che per ora non è ammaliata dal mercato no-lo è il Chianti Docg. Ma il presidente Giovanni Busi, che guida il Consorzio toscano, guarda avanti con un certo relativismo e con visione aperta: «In questo momento storico non vedo certamente un Chianti no-low alcol, ma non posso nemmeno dire che tra dieci o vent'anni non ci possa essere. Sicuramente - afferma - non farei mai una variazione al disciplinare per dire che oggi e per sempre non faremo vini no-low alcol». Il segmento, secondo l'imprenditore, è un nuovo spazio dove investire. «I mercati mondiali del vino si stanno allargando. Oggi, un produttore di vino che fa 300mila bottiglie ovviamente non può sobbarcarsi il costo di uno stabilimento per dealcolare, ma esistono alternative come il contoterzismo. Ed è giusto che tutto questo, come dice il decreto, avvenga in Italia e non si debba andare all'estero per realizzare tali prodotti». Il presidente Busi guarda poi ai mercati: «L'Italia è tra i primi esportatori negli Usa di vino no-low alcol. E li facciamo fare soprattutto in Francia. Altri mercati sono quelli di fede musulmana e poi c'è il Giappone, dove sta spopolando il vino in lattina. Il fenomeno mi era stato raccontato ma non ci credevo. Poi, ho girato alcuni supermercati a Tokyo: interi corridoi con tutti vini in lattina. Allora dico che nel mondo c'è spazio per tutti. L'Italia e le denominazioni devono mantenere la propria specificità ma in qualche modo dobbiamo anche adeguarci ai cambiamenti».