Un uomo di confine
Prima regola. Non chiamatelo produttore o imprenditore. Lui, camicia a quadri e sguardo pulito, è un contadino e la sua è “solo” un'azienda agricola: “Mi fa sorridere quandoi giornalisti la chiamano cantina o azienda vitivinicola, pensando, così, di usare un termine più prestigioso”.
Seconda regola. Non chiedetegli perché non sia certificato biologico o biodinamico: “Non c'è bisogno di un timbro per dire quel che sei. È come andare in giro a dire sono onesto: lo sei e basta, senza proclami”.
Terza regola. Non fate domande sulla qualità dell'annata in corso. “Dal 2001 non mi son più permesso di controllare né un grado zuccherino né l'acidità: tanto non aggiungerei comunque nulla”.
Se non fosse ancora chiaro di chi stiamo parlando, basterà aggiungere una delle frasi che più lo identifica: “Il vino è come un'anfora: amplifica pregi e difetti del vino”.
JoškoGravner è un uomo di confine, come i suoi vigneti. Da un lenzuolo all'altro di terra (la cantina si trova in località Lenzuolo Bianco di Oslavia) ci sono poche curve, due Paesi (Italia e Slovenia) e tanta storia. Lui va dall'uno all'altro, ritorna, riparte. Anche cambiando strada a volte o tornando su quella precedente. È un uomo che si pone dubbi e domande e che per rispondere non ha paura di mettersi in discussione ogni volta.
foto M.Mocilnik
La certezza del dubbio
È così, con questa capacità di dubitare, che è iniziato il suo percorso in cantina, rinnegando in un primo momento gli insegnamenti del padre e dello zio e introducendo per la prima volta l'acciaio e le barrique francesi. Erano gli anni '80: “Io allora mi sentivo moderno”ci confida Joško“Mio padrequando vide i contenitori di acciaio mi chiese 'che fai con quelle pignate?'. Mi lasciò fare, ma disse che un giorno sarei tornato indietro”. E infatti, così fu. Ma quel che non aveva previsto è che Joško non solo sarebbe tornato indietro, ma sarebbe arrivato fino all'origine. Alla vinificazione in anfore di terracotta provenienti dal Caucaso. “L'acqua pulita si ritrova alla sorgente non alla fonte”, ama ripetere.
Prima, però, un altro viaggio, un'altra strada checapisce non essere la sua: l'incontro con la viticoltura americana, quella che negli anni '90 era considerata l'ultima frontiera del vino. Tante aspettative e un'unica grande e definitiva delusione: “Ho capito che non volevo fare un vino alla coca-cola. Bere vino è un optional: nessuno ti obbliga, quindi o è buono e non fa male o non ne vale la pena”. Le prime prove di macerazione sono del 1996, dopo una disastrosa grandinata; il primo vino in anfora del 2001. La storia di questo cambiamento è raccontata nel documentario uscito da poco Skin Contact: Development of an Orange Taste, in cui, sul filo degli orange wine in Italia, Gravner è protagonista insieme a Angiolino Maule e Daniele Piccinin. Il film, diretto da Mike Hopkins, è disponibile sul sito bottledfilms.com.
foto M. Frullani
La scelta controcorrente
Oggi quello di Gravner è un percorso a eliminazione. Ha eliminato l'acciaio (per passare alle anfore), i trattamenti in vigna (per passare al biodinamico), gli additivi (tutti a parte lo zolfo), la pressa automatica, il frigo per raffinare mosti e la diraspatrice. E da ultimo gli stessi vigneti: tutti tranne quelli di Pignoletto e Ribolla.
Ad assaggiare il suo perfetto Pinot Grigio Riserva 2006 edizione limitata, uno degli ultimi (seguiranno solo le annate 2007, 2009 e 2011) piangono cuore e palato. Ma ormai è fatta: il vigneto è già stato espiantato. Il futuro è la Ribolla. E che importa se per ora è proprio il Pinot Grigio ai primi posti tra i vitigni più impiantati in Italia e dei vini più richiesti nel mondo: per Gravner non esistono mode da seguire o mercati da inseguire. Semmai è il contrario: i mercati aspettano, anche sette anni per avere i suoi vini. Sono, infatti, sette gli anni dell'attesa del vino (uno in anfora e sei nel legno) e sette quelli che ci mette un terreno per essere pronto ad accogliere nuovi impianti. Non a caso il sette è il Numero, quello delle religioni e della filosofia.
Il ritorno all'agricoltura del contadino
Da quanto detto fino ad ora, sembrerebbe che Gravner sia più che altro un uomo di pensiero, una sorta di eremita o di asceta. In realtà, camminando con lui tra i vigneti, si capisce che è anche un uomo molto concreto. “Il vero problema dei nostri tempi” dice, immerso nelle sfumature giallo-marroni del Collio “è che stiamo vivendo un'agricoltura senza contadini”. E lui, che contadino si sente,non riesce a capacitarsene e ci soffre, conscio com'è che il contadino per la maggior parte del tempo è colui che non agisce, ma questa paradossalmente è una delle azioni più coraggiose che possa fare, come scrive Stefano Caffarri nel libro Gravner, coltivare il vino (testi di Stefano Caffarri, foto di Alvise Barsanti, casa editrice Cucchiaio d'Argento).
Emerge, di tanto in tanto, anche una parte autoironica di questo contadino del vino, ad esempio quando racconta dei controlli in cantina, dove, come se non bastassero le anfore interrate a confondere i burocrati, ci pensano anche le candele utilizzate per misurare la presenza di anidrite carbonica: “Ogni volta che viene il nucleo antisofisticazione mi dice che non ha mai visto una cantina come questa”. Ride.
Se gli chiedi delle quantità di vino prodotte quest'anno risponde che “tanto il vino va a bicchieri, mica ad ettolitri”. Ma quando si parla di sostenibilità e di biodistretti ritorna alle metafore: “Sono iniziative interessanti, ma se vuoi conquistare il monte Everest” dice“non puoi andarci con il pulmino”. Lui preferisce andarci a piedi. Lentamente.
a cura di Loredana Sottile