La Germania è la principale destinazione dell’export di vino italiano in Europa. E non solo: tale nazione si colloca al terzo posto (2,5 miliardi di vino importato nel 2014) tra i principali mercati d'importazione al mondo, dietro a Stati Uniti e Regno Unito.
Il mercato tedesco
Il consumo pro-capite di vino è in Germania è intorno ai 25 litri all’anno, per un totale di 20,4 milioni di ettolitri totali, come ha rilevato una recente analisi di Wine Monitor, Osservatorio di Nomisma sul mercato del vino: “non è sicuramente il Paese europeo dove si consuma più vino (superato da Francia, Italia, Portogallo, Austria, Belgio), ma il tedesco è in media aperto alla diversità, effettua la scelta del prodotto in base al gusto, è sensibile al prezzo ma non è rigidamente legato ad una fascia di prezzo. Aumenta la domanda di vini di qualità e quindi aumenta il prezzo medio di acquisto. Questo processo di premiumization si è verificato anche nei discount e supermercati... Rimangono comunque alcune sfide come l'elevata concorrenza su qualità, prezzi e promozioni e la complessità dovuta alla grande varietà di canali di vendita”.
Le carte dei vini
Frequentando il mercato vinicolo tedesco e le professionalità a esso attinenti da una ventina di anni, emergono alcune considerazioni. La più ovvia è sul posizionamento del vino italiano: starà anche “premiumizzandosi”, ci si passi il neologismo a uso ironico, ma rimane comunque fermo alla fine degli anni Novanta, almeno a guardare le carte dei vini dei più noti e importanti ristoranti della Germania intera. Dove invece sono presenti, da decenni, alcuni dei più celebri vini di Francia: quasi che il sommelier o il buongustaio non abbia ancora alcuna cognizione dei grandissimi Barolo o Brunello. Non parliamo poi dei grandi vini di altre regioni o denominazioni, meno rinomate. E così, se nelle cantine dei ristoranti stellati non si fatica a scorgere Romanée Conti o Rousseau o Roumier, Château Latour, Lafite Rothschild o Château Petrus, è invece impossibile trovare Soldera, il Monfortino di Giacomo Conterno, Ca’ d’Morissio (fino a 3 anni fa nemmeno importato) di Giuseppe Mascarello o Quintarelli. E si stenta pure a scovare un marchio noto come Gaja. Quasi che sia inconcepibile mettere in carta un vino italiano a 300-400 euro per bottiglia. Allora come può aumentare la domanda di vino di qualità se i più celebri ristoranti ignorano o trascurano le più etichette italiane? Non era anche il prezzo a fare il posizionamento?
Le ragioni storiche di una assenza
I più noti importatori tedeschi di vino italiano (fra cui alcune famiglie emigrate) tendono a individuare due ragioni per la nostra assenza dei ristoranti più importanti: la prima è che la richiesta delle nostre etichettein Germania è storicamente legata alla cucina d’immigrazione, proliferata con le pizzerie, la seconda che l'Italia è incapacedi fare sistema e valorizzare le proprie eccellenze. “Tutto questo vale per i rossi” commenta Rene Sorrentino, di GES Sorrentino, al vertice degli importatori di vino italiano in Germania “perché per i bianchi il discorso non tiene. Il bianco tedesco è oggi vincente, dato che mediamente più buono e decantato dalla stampa. Così, a parte le mode come il Lugana, i top bianchi italiani non trovano spazio e sono spesso così cari che non reggono il paragone coi tedeschi”.
Strategie di vendita e limiti linguistici
Sembra, tanto per non scrivere una cosa nuova, che manchi tanta strategia nel vendere e comunicare il prodotto italiano. Al sommelier prima che al buongustaio. Ma anche al buyer. Il panorama tedesco infatti necessita di una conoscenza particolareggiata sia delle dialettiche che dei canali di posizionamento: è un mercato complesso e frazionato (e in maniera diversa da quello italiano), dove, peraltro, per circa un ventennio il nostro vino non è certo stato identificato come quello più pregevole e costoso al mondo. Insomma quello tedesco è un mercato maturo e parzialmente saturo, dove sono necessarie figure commerciali non improvvisate e non digiune della lingua, il che ancora oggi non appare semplicissimo, per quanto siano le stesse affermazioni che ha snocciolato Angelo Gaja per venti anni.
E in parte siamo ancora a venti anni fa: figure commerciali affidabili e preparate (anche linguisticamente) scarseggiano, come pure strategie di vendita e posizionamento, e talora si ha la sensazione di trovarsi davanti a Totò e Peppino che emigrano a Milano. E così si combatte per malvestire e piazzare l’ennesimo Montepulciano, Nero D’avola o Primitivo a 1,80 ex cellar, magari sotto un marchio premium, così da impedirgli di essere davvero (finalmente) un prodotto premium.
Dunque la Germania sarà anche subito dietro agli Stati Uniti, come uno dei principali mercati d’importazione del vino italiano, ma con gli Stati Uniti ha ancora poco a che spartire, guardando all’incidenza dei nostri modelli vitivinicoli.
a cura di Gian Luca Mazzella