Tra pochi giorni i dati Istat dell’export vitivinicolo italiano del 2024 ci diranno che un nuovo record è stato raggiunto, che il vino Made in Italy non teme crisi e che le preoccupazioni erano infondate. Per qualche ora dimenticheremo anche i dazi di Trump, visto che negli Stati Uniti si profila una nuova medaglia (di legno?) da mettere al petto del vino italiano, che si appresta a sfiorare i 2 miliardi di euro. Non serve la sfera di cristallo per anticipare i titoli che leggeremo il prossimo 11 marzo (il giorno X): “Altro che Trump, il vino tricolore è il protagonista della cavalcata trionfale nel Paese a stelle e strisce, che ama l’Italia e non è in grado di rinunciare ai suoi prodotti”. Ma siamo sicuri che sarà proprio così?

Un rush di ordini dovuti ai dazi annunciati
Abbiamo provato a capire cosa sta succedendo nella realtà proprio a partire dagli Stati Uniti, dove due variabili impazzite stanno rimescolando le carte sul tavolo e stravolgendo il gioco. La prima riguarda i dazi annunciati da Trump che potrebbero scattare dal prossimo 2 aprile; la seconda è numerica: il segno più dell’import vitivinicolo va a sbattere contro i dati effettivi dei consumi che appaiono decisamente in calo. Ma andiamo con ordine.
Vero è che il primo mercato di sbocco al mondo chiuderà il 2024 con un balzo degli ordini attorno al 10%, ma il segno più sarà condizionato non poco dal rush finale dato dagli importatori americani per anticipare i possibili dazi: +20% la media di crescita di novembre e dicembre. E a gennaio le spedizioni verso gli Usa continueranno a volare, perché l’unico modo veloce per reagire ai dazi è prevenirli.
Ma il segretario generale di Unione italiana vini Paolo Castelletti avverte: «L’analisi delle performance enologiche negli Usa non può non tenere conto di un mercato commercialmente dopato dallo spauracchio dazi. Quello che è certo, ha aggiunto, è che nei prossimi mesi si presenterà il conto a prescindere dalle eventuali nuove tariffe, perché i consumi interni dimostrano una forte inversione di tendenza». Prova ne è la notizia secondo cui uno dei primi gruppi di beverage al mondo, Constellation Brand, stia cercando di vendere il portfolio vino, mentre alcuni grandi distributori – tra cui Southern Glazer’s - stanno attuando politiche drastiche di riduzioni del personale.
A gennaio i consumi in Usa calano a picco
L’altra faccia della medaglia ci mostra, infatti, che a dicembre le bevande alcoliche in stallo nei depositi dei distributori americani si sono accumulate fino a valere quasi 10 miliardi di dollari. Secondo l’Osservatorio di Unione italiana vini su base SipSource, le vendite di vino negli Stati Uniti hanno frenato complessivamente del 9,6%, con l’Italia a -10,4%. Quindi, a fronte di un’accelerazione nell’export, alla prova del nove delle vendite interne (e quindi dei consumi reali) si viaggia da due anni con un cospicuo segno meno. «In un mercato che lato consumi - quelli veri - è andato peggio del 2023, dove metteremo tutti i vini che hanno acquistato? - si chiede, numeri alla mano, il responsabile dell’Osservatorio Carlo Flamini – Nel 2025 (o forse anche più in là), questa cosa probabilmente presenterà il conto».

Va giù anche il Prosecco: -7,1%
Stavolta non si salva neanche il Prosecco che a gennaio fa -7,1%, sebbene la categoria spumanti abbia limitato i danni a -1,1% grazie agli Charmat. Charmat che rappresentano l’unico segmento in luce verde anche tra gli sparkling di casa (-14%), quelli francesi (-12,4%) e spagnoli (-8,4%). Giù anche i vini rossi italiani, che chiudono il primo mese dell’anno a -7,5% e i bianchi che scendono addirittura del 16,2%. Cali in (profonda) doppia cifra anche per rosati e aromatizzati. Guardando alle denominazioni, importanti riduzioni si riscontrano per Pinot grigio delle Venezie, Doc siciliane, Valpolicella e Moscato d’Asti, mentre tengono i toscani anche con un rimbalzo rilevante per il Chianti classico.

L’esortazione a lavorare sugli accordi di libero scambio
Il calo sul calo dello scorso anno deve far riflettere su come cambiare rotta, sulla necessità di profilare maggiormente i target, su come orientare e regolamentare la propria offerta, su come rispondere alle chiusure commerciali e alle lobby anti-alcol.
«In un mondo che si chiude, diventa ancor più fondamentale puntare sulla leva degli aiuti alla promozione – è il punto di vista del presidente Uiv Lamberto Frescobaldi - Questi fondi hanno infatti contribuito in maniera forte alla crescita, di quasi il 60%, delle nostre esportazioni negli ultimi 10 anni. Lo strumento della promozione potrebbe aiutare ad allargare il recinto dell’export made in Italy, a patto che contestualmente si possa lavorare – ove possibile – su nuovi accordi di libero scambio». La parola chiave torna, quindi, ad essere differenziazione: puntare tutto sui soliti cavalli, in questo momento, è controproducente (non solo Stati Uniti, ma anche Germania alle prese con la recessione economica).

Se il protezionismo torna di moda anche in Italia
«Detto che il mercato statunitense non è sostituibile – continua Frescobaldi - è inutile e a mio avviso controproducente negare difficoltà che, in caso di dazi, sono destinate ad acuirsi. Per questo, pur rispettando le ragioni di ciascuno, certe posizioni di opposizione alle partnership bilaterali, come con il Mercosur e ora anche con l’India, a nostro avviso non aiutano. Non si può criticare il protezionismo e poi avercelo in casa». A buon intenditore...
Di certo l'appello di Coldiretti al Governo per frenare sull'accordo con l'India (arrivato dopo le perplessità sul Mercosur) potrebbe diventare un terreno di scontro tra associazioni di settore in un momento storico in cui il modello autarchico di Trump sembra tornare di moda. La scelta dipende sempre dalla risposta ad una domanda: quanto si è disposti a perdere?