A qualcuno scappa un’esclamazione colorita: è davvero un tappo di sughero! Da giorni incontriamo solo tappi a vite, sui bianchi come sui rossi a tiratura limata. Siamo in una cantina di Marlborough, nell’isola del sud della Nuova Zelanda. Per arrivarci dall’Italia il viaggio è piuttosto comodo: scalo a Dubai, quindi volo per Auckland; da qui ci imbarchiamo a bordo di un bimotore, spazioso come una vecchia cinquecento, con destino Blenheim. Dopo sole 35 ore dalla partenza atterriamo tra una piana di vigneti, circondati da colline, l’aeroporto non è più grande di un campo da tennis. La città ha 30mila anime, esattamente come gli ettari vitati in regione, alle 9 di sera sembra essere scoccato il coprifuoco.
Il Sauvignon e la nuova mappa mondiale del vino
Il Sauvignon di Marlborough ha inserito la Nuova Zelanda nella mappa mondiale del vino, il calcio d’inizio è del 1973 quando Montana Estate (oggi Brancott) piantò le prime barbatelle. Oggi il Sauvignon copre l’80% della produzione regionale, cosa c’è dietro quell’intensità sferzante che ne contraddistingue lo stile? Di certo, il Sauvignon di Marlborough si ama o si odia, non ci sono vie intermedie. I produttori sono 150, la prima visita ha un ritmo funky, da Framingham ci accolgono calorosamente tra vinili, batterie, barbe lunghe e agronomi in calzini sgargianti.
"Non c'è più una sola idea di Sauvignon"
E' un enologo con il pallino del surf, Andrew Brown: ritroviamo la sua ironia nei gadget, dalle magliette ai cappellini, nella sala prove, nelle etichette. Ci introduce alla regione, le vallate prendono i nomi dei fiumi, noi abbiamo deciso di concentrarci sulla Wairau Valley, caratterizzata da terreni molto fertili e pianeggianti, poi ci sono l’Awatere Valley e le Southern Valleys.
"Non c’è più una sola idea di Sauvignon, sta crescendo uno stile meno spinto sull’aromaticità, in tanti stanno provando le fermentazioni spontanee. A me piace il Sauvignon maturo, dopo 10-15 anni". Framingham ha alcune delle vigne più vecchie della denominazione, l’AMP (Appellation Marlborough Wines) invece è stata istituita solo nel ’18. Tra i vini assaggiati spiccano i Riesling, compreso un sorprendente Trockenberenauslese, e il Pinot Nero, le altre due varietà protagoniste in zona. Nei filari circostanti giocano le pecore, le ritroveremo costantemente in vigna.
Nella cantina più antica di Marlborough
Il secondo appuntamento è con The Whare Ra, la realtà di Anna e Jason Flowerday (nella foto), la traduzione in lingua maoi è: La casa nel sole. La cantina è poco più di una casetta, con il garage trasformato in centro di vinificazione. È la più antica tra le cantine private di Marlborough, fondata nel 1979, autentici pionieri del bio; il livello dei vini ci impressiona su tutta la linea per carattere.
"La Wairau River è più calda, qui il sauvignon tende a maturare prima, con sensazioni tropicali più marcate, mentre ad Awatere le uve sono raccolte un mese dopo, clima più fresco e tratti agrumati e floreali. Noi abbiamo vigneti in entrambe le zone e maturiamo il 10% della massa in legno esausto", ci dice Anna. Quando riconosce il nostro accento ci ringrazia: "Dovete sapere che il primo a scoprire il potenziale del vino neozalendese è stato un italiano, Romeo Bragato (vedi box), la sua ricerca è stata dimenticata per anni". Salutiamo e intermezziamo con un lauto pranzo da Harvest Restaurant dove assaporiamo un sauté di vongole Cloudy Bay Diamonds da perdere la testa: enormi, sode, saporitissime; l’altra specialità è la spalla d’agnello, che qui ha un sapore decisamente meno selvatico e più dolce rispetto all’Italia.
La piccola delusione di Cloud Bay
Siamo pronti per la visita più attesa, Cloudy Bay, il brand enologico più celebre del Paese. Il nome è quello della baia, scoperta dal navigatore James Cook nel 1770, in un giorno nuvoloso. L’avvio non è dei migliori, proprio davanti all’ingresso dell’attrezzatissima struttura, di proprietà del gruppo francese LVMH, c’è un vigneto diserbato probabilmente con il napalm: più che un trattamento sembra l’effetto di una bomba. Ci sono anche un paio di viti tranciate in malo modo. Ne chiediamo conto, ma riceviamo mezze risposte e silenzi, con annesse promesse di svolte bio in futuro. Non proprio il massimo davanti a un gruppo di giornalisti curiosi.
I vini non ci colpiscono, a partire da uno Chardonnay: "Il legno c’è, ma è praticamente impercettibile", per la nostra guida. Nel bicchiere abbiamo una quercia con qualche traccia di vino. Il Sauvignon, invece, ha un’intensità sfacciata, da cosa deriva? "Dipende da come lavoriamo i vigneti, i suoli, il clima marittimo e le escursioni termiche feroci", ci rispondono. Per noi c’è anche un uso smaliziato dei lieviti, tra l’altro la bocca non è corredata da altrettanto succo e sapore.
Apprezziamo, invece, il Pinot Nero proveniente dalla più recente acquisizione nella Central Otago, di buona profondità e complessità gustativa.
Nella più grande azienda biologica
La mattina successiva siamo da Dog Point, fondata da Ivan Sutherland, dal 1985 al ’03 direttore vitivinicolo di Cloudy Bay. Con i suoi 340 ettari è la più grande azienda biologica di Marlborough, siamo a Renwick. Il livello dei quattro vini prodotti è molto alto, con l’enologo Murray Cook (nella foto) affrontiamo tanti temi a viso aperto, a partire dal tappo a vite.
"Il Sauvignon è molto sensibile all’ossidazione, il cambio netto è avvenuto tra il ’00 e il ’02 quando la mancanza di prodotto e alcune partite pessime hanno convinto i produttori sono passati in massa allo screwcap". L’imprevedibilità da bottiglia a bottiglia non è tanto la magia del vino, ma un problema del tappo sughero: "Le bottiglie sono più costanti e invecchiano più gradualmente, in Nuova Zelanda o Australia è normale averli su bottiglie da 800 dollari". Tutti i quattro vini prodotti sono impeccabili per stile, definizione e senso della misura.
Il senso della indicazione "sostenibile"
Il dato del biologico a Marlborough è piuttosto basso, circa il 5%, chiediamo a Murray come si ottiene la certificazione "sustainable" che vediamo su quasi tutte le retroetichette. "È uno standard che unisce istanze ambientali, sociale ed economiche ma si ottiene piuttosto facilmente rispondendo a un questionario. Ci vorrebbero paletti più stretti, come azienda noi siamo molto più restrittivi". Bisogna viaggiare per capire quanto le nostre certificazioni siano restrittive e puntuali. Ringraziamo Murray per l’ottima degustazione, e per la sua chiarezza, e facciamo una passeggiata sull’oceano per schiarirci le idee.
Degustazione all'interno della chiesa
Nell’ultima visita ci ritroviamo a degustare in una chiesa, con l’enologo Damien Yvon (nella foto con la moglie Clio) direttore di Clos Henri, nei panni del prete. La tenuta è l’investimento della famiglia Bourgeois, una grande nome del Sancerre; qui si è voluto riportare uno stile francese valorizzando le peculiarità territoriali.
"A 50 anni Marlborough attraversa una classica crisi di mezz’età, ci stiamo facendo domande. C’è un’energia incredibile in questa parte del mondo, tutto cambia molto più velocemente, ma bisogna migliorare, sfruttando di più le sottozone. Stilisticamente i vini sono sempre più fini e leggeri". Il problema di queste terre, aggiunge, è l’altissima fertilità, se vengono aggiunti fertilizzanti è facile avere rese molto alte e tanto frutto.
Nelle sue bottiglie ritroviamo il buon vecchio sughero, un Diam: "Ci dà un’evoluzione più armoniosa. L’ideale sarebbe valutare in ogni annata la chiusura in base al vino, ma è economicamente difficile". I diversi single vineyard prodotti portano il nome delle glaciazioni che hanno modellato il territorio. Il picco è sul Pinot Nero Waimaunga ’20: tannini di qualità sublime, sensibilità francese e la tipica freschezza di Marlborough.
Evviva il tappo a vite
Per la nostra ultima cena dribbliamo Rocco’s, temibilissimo ristorante italiano tristemente celebre per il suo pollo alla mafia, e ci accomodiamo da Frank’s, un osyter bar che valorizza il pescato locale. Tra gli avventori conosciamo per caso anche la titolare della cantina Greywacke e assaggiamo un’altra decina di vini. Il confine stilistico tra Nuovo Mondo e Vecchia Europa è sempre più labile, ma la vera discriminante è tra grandi realtà (vedi Oyster Bay Wines) e piccole cantine. La divisione ce la portiamo indietro ovunque andiamo. Riprendiamo la strada di casa sempre più convinti della bontà del tappo a vite.