Il conto alla rovescia è cominciato. L’11 settembre in Europa si inizierà a parlare del futuro della viticoltura, compreso lo spinoso tema degli espianti dei vigneti. È questa infatti la data - la prima di quattro incontri - in cui il gruppo vitivinicolo di alto livello si riunirà a Bruxelles in vista della prossima Politica agricola comune (Pac). Mentre la Francia ha già espresso il suo favore verso l’estirpazione, definendo la misura «necessaria per dare nuove prospettive al settore», in Italia la situazione è ancora tutt'altro che unanime. Dopo la dura presa di posizione di Unione Italiana Vini (Uiv), da sempre contraria a questa soluzione, adesso anche Fivi (Federazione italiana vignaioli indipendenti) mette in guardia il settore, attraverso il presidente Lorenzo Cesconi. La sua posizione, come emerge nell'intervista che segue, è allineata a quella dell'Associazione europea dei vignaioli indipendenti (Cevi), che vede nell'espianto una «minaccia al patrimonio viticolo europeo, alla capacità produttiva e all'identità stessa di ogni vignaiolo» (vedi intervista alla presidente del Cevi Matilde Poggi) .
Presidente Cesconi, l'11 settembre il gruppo di alto livello vitivinicolo si riunirà per la prima volta. Ci sarà anche Fivi? E quale sarà la vostra posizione in merito agli espianti?
Sì, saremo presenti anche noi. L'estirpazione deve essere l'ultima spiaggia. Prima di arrivare a questa soluzione, bisogna considerare cosa si va a estirpare, per evitare di eliminare vigneti che potrebbero svolgere un ruolo importante, come quelli di versante. Il settore è già sotto pressione: dalla pandemia, abbiamo affrontato inflazione, aumento dei costi delle materie prime, calo dei consumi e campagne salutistiche contro il consumo dell’alcol, ed infine, come se non bastasse, gli eventi climatici estremi sempre più frequenti che hanno inciso molto sul raccolto. L'espianto non è e non sarà la soluzione.
Quindi la Francia sta sbagliando ad andare avanti con il piano estirpazione?
Il contesto francese è diverso da quello italiano e non può essere applicato o comparato automaticamente. Per quanto riguarda l’Italia, Fivi è fermamente contraria a questa misura: l'espianto, anziché sostenere le imprese, rischia di ridimensionare ulteriormente un settore già in sofferenza.
Unione italiana vini, che per prima ha parlato della minaccia degli espianti, afferma che tale misura finirebbe per finanziare l'uscita dal settore. È davvero così?
Siamo pienamente d'accordo con Uiv. E aggiungo che significa finanziare la morte di un’economia che tiene in piedi anche piccoli paesi. Esistono alternative valide a questa misura. Chi è a favore non si rende conto delle gravissime conseguenze economiche e sociali che una simile decisione potrebbe avere sui territori.
Quali sono quindi le alternative valide? E come andrebbe ripensata la Pac?
Gli Stati membri dovrebbero disporre di una "cassetta degli attrezzi", anziché procedere come ora, con richieste che lasciano aspettare tempi lunghi, bisognerebbe avere già a disposizione quasi tutto, per interventi tempestivi. Questo snellirebbe le procedure. Inoltre, è necessaria una revisione della distribuzione delle nuove autorizzazioni. Come vignaioli, infatti, crediamo sia necessario gestire le autorizzazioni in modo più flessibile, sia per i reimpianti che per gli espianti, prolungando i tempi previsti.
A tal proposito, il Copa Cogeca ha presentato la proposta alla Commissione Ue per un “espianto a tempo”: da tre fino ad otto anni per decidere se reimpiantare o abbandonare il settore, per ristabilizzare la domanda e l’offerta. Siete d'accordo?
I tempi proposti, fino a otto anni, sono appropriati. Siamo d'accordo sull'adozione di misure più elastiche.
C’è anche chi guarda all'espianto come un'opportunità per ristrutturare il settore, allineandosi con quanto sta accadendo in Francia, come il Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida che non rifiuta del tutto la proposta.
Quella degli espianti è una storia che si ripete. Nei primi anni 2000 era già stata espiantata una superficie considerevole, ma alla fine, paradossalmente, la resa è aumentata. Il problema è anche legato alle rese per i vini da tavola – che è sui 300 quitali per ettaro – ma diversi comuni richiedono deroghe per superare i limiti previsti, producendo così in eccesso e - nella maggior parte dei casi - senza qualità. Anche i Consorzi di tutela devono agire. Fondamentale deve essere il loro operato per intervenire anticipatamente e gestire le giacenze, modificare i disciplinari o creare con il surplus vini di riserva.
Per il surplus, la dealcolizzazione potrebbe essere un buon compromesso?
Se si tratta di gestire una crisi e ottenere una fonte di reddito, il vino dealcolizzato può avere un senso. Tuttavia, richiede impianti molto costosi, fuori dalla portata delle piccole aziende che noi rappresentiamo. Ci siamo già espressi in merito alla questione e rimaniamo fermi sui nostri punti: il vino dealcolizzato non dovrebbe essere chiamato vino e dovrebbe uscire dalla Pac. Inoltre, i costi energetici e l'uso dell'acqua lo rendono poco interessante e non sostenibile economicamente.
C'è anche un altro tema da affrontare con la nuova Pac: le autorizzazioni vitivinicole.
Ad oggi il sistema delle autorizzazioni, che vengono rilasciate “ a pioggia”, non risulta essere strategico: sono infatti presenti territori dove la necessità di autorizzazioni è più ampia. In sostanza, dovrebbero essere rilasciate con maggiore attenzione, considerando il territorio, la regione e le specifiche esigenze delle aziende. È essenziale valutare la situazione delle giacenze e la sostenibilità, per agevolare la crescita economica delle piccole aziende. Invece continuiamo a dare quote a territori che già hanno una grande produzione.
La combinazione crisi dei consumi e giacenze alte non aiuta il settore: è auspicabile una vendemmia ridotta?
È ancora presto per dirlo, ma ci aspettiamo una vendemmia quantitativamente ridotta. La stagione primaverile piovosa ha favorito l'insorgenza di malattie come la peronospora, a cui si è aggiunta poi questa estate la siccità che ci ha messo molto in difficoltà, per concludere con le violenti piogge di questi ultimi giorni, proprio in fase di vendemmia. Siamo ancora a un terzo della vendemmia, che durerà fino a fine settembre per la raccolta delle uve a bacca bianca e quelle a bacca rossa. Non posso ancora parlare con certezza della resa totale di quest'anno, ma sarà sicuramente ridotta. A tal proposito, saremo anche presenti al G7 di Siracusa e all'Expo e terremo un convegno su come il cambiamento climatico ha cambiato la viticoltura italiana.
Tra le storiche battaglie di Fivi, c'è quella della rappresentanza dei piccoli vignaioli all’interno dei Consorzi di tutela. Ci sono novità in merito?
Stiamo preparando un'istanza da presentare a livello politico per riequilibrare la partecipazione ai Consorzi, affinché nessun soggetto prevalga sugli altri. È importante che anche i piccoli produttori abbiano voce in capitolo. Non chiediamo che i piccoli vignaioli comandino, ma che le loro idee siano messe almeno sul tavolo. Al settore serve molto anche chi produce poco e bene.
A proposito di piccoli vignaioli, nei mesi scorsi il produttore Fabio Motta ha venduto la sua azienda di Bolgheri ad un grande gruppo, Gussalli-Beretta. Ci sono ancora le condizioni per restare dentro al gruppo Fivi?
Fivi ha un regolamento con dei criteri precisi. La questione è sul tavolo del Consiglio di amministrazione, ma il vero tema non è chiedersi se Motta rimarrà o meno in Fivi. La verità è che esiste una difficoltà generale nelle nostre imprese a reperire finanziamenti, soprattutto nel passaggio generazionale. La vendita a grandi aziende è, infatti, una tendenza che riscontriamo sempre più spesso; le piccole cantine che supportiamo hanno grande valore intrinseco, ma se questo non viene supportato con dei fondi da parte dello Stato, sono costretti a vendere. Il nostro comparto richiede grandi capitali e ci sono tempi di rientro lunghissimi. Un tempo avevamo finanziamenti più agevolati, oggi invece manca un’infrastruttura finanziaria e il passaggio generazionale è quello che prevede più soldi.