"I Piwi non sono Ogm. Ma non hanno niente a che fare con i vini naturali". Nicola Biasi fa chiarezza sulle varietà resistenti

5 Dic 2024, 16:45 | a cura di
I vitigni immuni alle malattie possono essere una svolta per la viticoltura del futuro. Ma in Italia ci sono ancora troppi pregiudizi e vuoti legislativi

Si scrive pilzwiderstandsfähig (termine tedesco), si legge Piwi, ovvero viti resistenti ai funghi.  Son le varietà che possono difendersi dalle principali malattie della vite grazie ai geni che conferiscono loro un'alta resistenza, consentendo così una significativa riduzione nell'uso dei pesticidi. E, in questi tempi - in cui si parla tanto di sostenibilità e attenzione all'ambiente - non possono che essere una finestra sul futuro. Ad oggi, però, sono solo 36 le varietà resistenti che possono coltivate in 10 regioni (Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche, Lazio, Abruzzo e Campania).  Ne abbiamo parlato con Nicola Biasi, produttore del Vin della Neu ed enologo frontman della rete di aziende dei “Resistenti - Nicola Biasi”, che coinvolge aziende che si trovano su diversi territori dal Friuli, Veneto e Trentino al Mare Adriatico e alle Dolomiti e che coltivano Sauvignon Kretos, Soreli, Bronner, Johanniter, Fleurtai e Souvignier Gris per i vitigni a bacca bianca; Regent e Cabernet Eidos, Cabernet Cortis per quelli a bacca rossa. A lui il Gambero Rosso ha assegnato quest'anno il Premio per la vitivinicoltura sostenibile.

 

Partiamo da una definizione chiara e semplice dei vini Piwi.

Sono incroci ottenuti per impollinazione di due specie diverse di vite: quella europea viene ibridata con un’altra (l’americana o l’asiatica) immune a malattie come la peronospora.
Tramite l’impollinazione si procede per incroci generazionali fino a che la pianta non arrivi a una percentuale di “sangue” europeo intorno al 95%. Si ottengono così vitigni che hanno perso l’immunità totale alle malattie, ma presentano il tratto della resistenza.

Cosa intendiamo allora per “resistenza”?

Che le piante, se attaccate da funghi, riescono a reagire in poche ore e malattie come la peronospora non si diffondono. Tradotto in termini pratici vuol dire che invece di – per esempio – 20 trattamenti ne serviranno 4, andando a guadagnare in sostenibilità, e salvaguardia del territorio.

Spesso associamo queste piante agli Ogm…

Gli incroci sono il risultato di impollinazione, non si tratta di un Ogm.

Perché allora questa confusione?

Si confonde il termine “ibrido” con Ogm, associando entrambi le definizioni a qualcosa di prodotto in laboratorio. La parola Piwi a me non fa impazzire perché può mettere un po’ di sospetto per la sua pronuncia. Preferisco usare “varietà resistente”, un termine più comprensibile. C’è sicuramente una lacuna a livello di conoscenza, ma c’è pure da parte nostra una mancanza di una comunicazione chiara e diretta.

Perché si è appassionato ai Piwi?

Mi affascina la potenzialità qualitativa del vitigno unito al tratto della resistenza: permette una viticoltura più sostenibile. Secondo me, il mondo ne ha bisogno. Dobbiamo inquinare meno, in tutti i settori. Con il cambiamento climatico, poi, avremo sempre più bisogno di varietà che funzionino meglio con il clima attuale e questo indipendentemente dalla resistenza. Diventerà fondamentale aggiornare la nostra base ampelografica con varietà più funzionali. Perché non farlo con varietà resistenti alle malattie che recano anche il vantaggio della sostenibilità?

Perché parla di maggiore sostenibilità?

Proprio per via del tratto della “resistenza” sono necessari meno trattamenti, con una conseguente riduzione sia delle emissioni di Co2 che dell’uso di prodotti come rame e zolfo. C’è anche una un minor compattamento del suolo, in quanto i trattamenti vengono eseguiti dopo che ha piovuto: si passa tra i filari e si comprime il terreno per cui si crea asfissia radicale. Meno ossigeno c’è nel terreno e più si impoverisce.

C’è una misura scientifica di questi benefici?

Ci siamo fatti certificare da ClimatePartners, analizzando due vigneti dell’azienda Albafiorita. Attraverso uno studio di due ettari diversi, uno con varietà resistenti, e uno con varietà classiche coltivate in biologico, abbiamo registrato una riduzione di Co2 del 40% e una necessità idrica minore del 70%. Sono numeri importanti che neppure il biologico assicura. Sono dati oggettivi, misurati. Tutto questo ha valore, però, se facciamo vini buoni oltre che sostenibili.

In che senso?

I trattamenti in meno, il risparmio economico, la sostenibilità… queste cose devono essere per noi una sorta di ciliegina sulla torta. Prendiamo per esempio le macchine elettriche: 30 anni fa, già esistevano, ma con una batteria che durava poco e nessuno le voleva. Adesso le Tesla si vedono in giro sempre di più. Perché? Sono belle, veloci, fatte bene… Poi certo, ci possiamo raccontare che inquinano poco o di meno, ma non è che si vendono solo per questo motivo. Dobbiamo fare la stessa cosa col vino: 20 anni fa i Piwi esistevano, ma i vini non erano buoni. Solo se sono appetibili possiamo venderli e quindi fare qualcosa per l’ambiente. Pensare di vendere le etichette Piwi solo per una questione di salvaguardia ambientale è un po’ un'illusione. La qualità deve venire prima di tutto.

Non è sempre così?

In Italia spesso si fa il biologico per "essere" biologici e poterlo mettere in etichetta. Concettualmente lo trovo sbagliato. Molto spesso confondiamo il mezzo con il fine. Essere biologici, biodinamici o usare varietà resistenti deve essere il mezzo per ottenere come risultato il miglior vino possibile da un territorio. Coltivare una varietà resistente deve essere il buon mezzo per fare un vino buono, territoriale, e poi, come ciliegina sulla torta, sostenibile. Il focus deve essere nel binomio “qualità e territorio”.

I Piwi colmano il divario tra naturale e convenzionale?

“Vino naturale" è un termine che non ha senso. Non ci sono bottiglie di vino in natura, la vite non ha come obiettivo ultimo fare vino, che è invece un prodotto dell’uomo. Quando mi chiedono se i miei siano vini naturali, io rispondo di no, perché non credo esistano. Il vino è un prodotto dell’uomo. Punto.

In termini economici i Piwi fanno risparmiare? E quanto?

Tanti pensano di poter risparmiare, coltivandoli, grazie ai minori trattamenti, ma non calcolano che poi serve uno sforzo economico per comunicare i prodotti e per sostenere il marketing. La novità e la sostenibilità piacciono, ma a livello comunicativo ci sono pregiudizi e questi vini sono ancora poco conosciuti. Bisogna lavorare tanto sulla comunicazione.

Ultimamente ci sono tanti concorsi dedicati ai Piwi…

I concorsi riservati esclusivamente alle varietà resistenti non li vedo di buon occhio: è un modo di ghettizzarli. Posso essere il più buono tra i resistenti, ma se non sono buoni come quelli “classici”, che senso ha? Discorso analogo per i vari stand e per gli angoli dedicati alle manifestazioni.

Non li trova utili?

Al Merano WineFestival mi sono rifiutato di stare nello stand dedicato ai vini Piwi, spiegando che i miei vini dovevano stare con tutti gli altri. Per me non ha senso fare i corner Bio o Biodinamici: se i vini sono buoni, sono buoni. Punto. Se il Gambero Rosso facesse la sezione vitigni resistenti, non manderei più i campioni, perché voglio che siano inclusi con tutti gli altri vini.

Cosa succede nel mondo?

In Germania e Inghilterra hanno meno pregiudizi e sono molto più pragmatici: guardano il risultato e il contesto totale. Nella Champagne hanno autorizzato utilizzo due varietà resistenti e nel 2024 potrà esserci una percentuale bassa, non credo oltre il 10%, con varietà resistenti. Il problema sui Piwi lo riscontro solo in Italia.

Quale problema?

In Italia abbiamo un legame bellissimo con la tradizione. Una connessione importantissima, ma se troppo viscerale può diventare un limite.

Perché? E in che modo?

A Siena durante una degustazione Onav, un produttore di Chianti Classico mi disse che i Piwi non servivano a niente. Io di rimando chiesi cosa avrebbe fatto se tra 40 anni non sarebbe stato più possibile piantare sangiovese. Lui mi rispose “continuerei a piantarlo”. Siamo troppo legati al vitigno. Il discorso è fare il migliore vino che puoi con il territorio a disposizione. Farlo con questo o quel vitigno cosa cambia?

Ci saranno però anche svantaggi a usare i Piwi, no?

Sì. Ma soprattutto a livello legislativo. Nelle Doc ancora non sono autorizzati in certe regioni, tra cui Sicilia e Marche, ed è un limite per chi si vuole approcciare alla varietà.

E a livello pratico?

Serve avere conoscenza del vitigno e di come si vinifica. Oggi se uno decide di piantare sangiovese trova sicuramente qualcuno che può guidarlo. Con i resistenti invece c’è stato un minor studio a riguardo e dunque si trovano meno professionisti preparati a seguirli.

Cosa dobbiamo aspettarci nel bicchiere?

Dobbiamo aspettarci vini “normalissimi”. Vinificati bene, senza errori tecnici e legandoli a un territorio otteniamo vini che saranno difficilmente molto diversi dai classici, anzi si può dire che si possono confondere tra di loro.

In che senso?

Ho provato a mettere il Vin della Neu in una degustazione alla cieca accanto a vini dell’Alto Adige, o grandi bianchi come il Vintage Tunina di Jermann. 99 degustatori su 100 non lo riconoscono. E comunque, se riescono, mi dicono: “questo è il Vin della Neu” non “è un vino da varietà resistente”.

Lei come ha fatto a far conoscere il Vin della Neu?

Per farmi ascoltare ho messo un prezzo altissimo al vino: volevo che qualcuno arrivasse a dire “ma chi è quel cretino che lo vende a questo prezzo?”. Ho fatto rumore per attirare l’attenzione su qualcosa in cui io credevo molto. Se lo avessi messo a 10 euro non credo avrei avuto lo stesso risultato.

Parliamo del Vin della Neu. Come lo descriverebbe?

Sfatiamo un’idea. Tutti dicono che il Johanniter nel tempo sa di Riesling. Ma non è così. Dobbiamo smettere di legare le varietà resistenti al genitore dell’ibridazione. A volte si assomigliano, altre no. Direi che è più paragonabile a uno Chardonnay o un Pinot Bianco che proviene da zone fredde.

E per quanto riguarda le caratteristiche di longevità?

È un vino che tende a restare molto giovane. Ho stappato circa due settimane fa le prime due annate – la 2013 e la 2014 – e le ho trovate perfette. La 2022 (recensita nella Guida Vini d’Italia 2025; ndr) è una lama: dritto e austero nella sua gioventù che tende ad allargarsi con il tempo, ma rimane un vino verticale. Ha un’evoluzione lenta che si delinea nel tempo. La 2013, degustata alla cieca, è stata scambiata per la 2020…e non sa di Riesling!

Come sarà l’annata 2024?

Purtroppo non uscirà. È la prima volta che succede, per via di una primavera molto piovosa non ci sono state le condizioni per una maturazione ottimale. Se non c’è qualità, non lo produco.

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