Piccole Doc, ma grande clamore... Ogni volta che nel nostro paese si torna a parlare del sistema delle Doc inevitabile e puntuale arriva il tormentone sulle piccole denominazioni: servono/non servono, costano troppo, creano confusione... Ma se è vero che un sistema con 403 tra Doc e Docg (per un numero incalcolato di tipologie che supera le diverse migliaia) oltre a 118 Igt non può proporsi come strumento di marketing del vino italiano - perché a forza di valorizzare e ritagliare identità territoriali ha perso la funzione di quadro di riferimento e, quindi, qualsiasi efficacia comunicativa e commerciale - è anche vero che una auspicabile (ma ad oggi solo ipotetica) riorganizzazione del sistema della Do non potrebbe basarsi solo su valutazioni numeriche.
I numeri del rapporto Do/prodotto certificato che pubblichiamo nel riquadro sono disarmanti – per l’evidenza di un sistema ormai pletorico e spesso inutile – e illuminanti al tempo stesso, sulla necessità di riformarlo; significativi i ripetuti appelli di Federdoc a “ridurre, riorganizzare e riaccorpare l’offerta delle doc esistenti”. Ma quando si cerca di capire cosa andrebbe tagliato, parlare solo di quintali di prodotto potrebbe essere fuorviante. “Non basta dire piccola Doc” commenta Ezio Pelissetti AD di Valoritalia “perché abbiamo da un lato Do con elevata estensione territoriale ma bassa percentuale di rivendicazione e altre con ridotto areale produttivo e alta percentuale di uve rivendicate”. Le prime, aggiungiamo noi, nate spesso sulla spinta di protagonismi (politici) locali, rimaste indifferenti ai produttori e al mercato, le seconde, interpreti di valori identitari, molto sentite dai produttori e riconosciute come l’anima (e tutela) della ricchezza del nostro patrimonio ampelografico e produttivo.
Nel nostro breve giro d’Italia tra le piccole Doc abbiamo cercato di capire quale sia il loro mercato, come affrontino la crisi e quale futuro si prefigurino. Iniziamo dal Bergamasco, in Lombardia, con il Valcalepio Doc. Doc dal 1976 (nelle tipologie rosso, bianco e passito), il Valcalepio nel 2011 ha prodotto 13,440 qli di uva certificata per poco più di 9.300 hl di vino, con una flessione negli ultimi due anni del 25%. “Conseguenza di andamenti vendemmiali e non certo di una crisi commerciale” specifica Enrico Rota presidente del Consorzio che riunisce 57 aziende imbottigliatrici (l’88% degli imbottigliatori pari al 94% della produzione certificata) e che da qualche mese ha ottenuto l’erga omnes. Con una distribuzione commerciale di territorio (l’85% si vende in provincia, con un 35% di vendita diretta in cantina e 50% in horeca e gdo, mentre il 10% va in regione, di cui il 5% a Milano, e 5% in export) la Doc negli anni ’70 ha segnato la rinascita dell’enologia frenando l’abbandono dei terreni collinari. “La nostra sfida”continua Rota “è stata quella di restituire, tutelare e proporre commercialmente un vino identitario del territorio. E i risultati ci danno ragione: oggi nei ristoranti della zona si beve Valcalepio che il consumatore bergamasco riconosce come il suo vino”. Una Doc preziosa, “indispensabile”, conclude, “ma che vedrei bene accanto ad una Do o Igp regionale per dare più forza ad altre produzioni con meno storia di territorio come la nostra Igt Bergamasca”.
Una operazione piramidale ben congegnata, invece, la troviamo nel vicino Veneto dove la recente e lungimirante fusione delle doc Piave e Lison Pramaggiore – con le varietà meno “identitarie” - nella nuova Doc Venezia ha portato alla nascita di due Docg, Piave Malanotte, e Lison, per valorizzare la vitivinicoltura storiche dei due territori. Dal nome di un piccolo borgo simbolo della secolare storia agricola del Piave, il Malanotte “è stato pensato con l’obiettivo di posizionare il nostro vitigno storico, il Raboso, nel “salotto buono dei grandi vitigni rossi italiani” racconta Toni Bonotto, ultimo presidente della doc Piave e animatore della Docg Malanotte insieme a Pier Claudio De Martin numero uno della Cantina Sociale di Orsago “recuperando e valorizzando in chiave moderna la tradizionale tecnica di cantina, simile al ‘ripasso’ con lieve appassimento delle uve, che ha impresso al Raboso un gusto morbido, elegante, moderno”. Una Docg nata sul progetto di un vino nuovo, che recupera la tradizione per imprimere al Raboso una forte identità ed un carattere riconoscibile, traghettandolo fuori da quel limbo rustico e popolano che lo aveva imbrigliato di recente facendogli perdere mercato e immagine. “Chi ha sfidato le sirene del Prosecco e del Pinot Grigio (meno del 10% delle aziende), certamente oggi molto più redditizi del Raboso, difendendo però la nostra storia e identità avrà in futuro soddisfazione non solo morale”conferma Bonotto. Da 690 a 2000 i qli rivendicati e da 5 a 14 gli imbottigliatori in due anni: con il 60% venduto localmente (di cui la metà in vendita diretta), 15% in horeca Italia e 25% all’estero, e un posizionamento prezzo enoteca tra 20-30 €. “La crescita sarà anche a due zeri” conclude Bonotto “grazie ad una piccola, ma strategica, Docg che salverà la grande Doc da un oblio altrimenti inarrestabile”.
a cura di Giulio Somma
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 25 luglio. Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. E' gratis, basta cliccare qui.