“Piccolo è bello” per le Doc italiane, purché si abbini a identità, territorio, tradizione ma, soprattutto, mercato. E se la crisi punge, in modo particolare le piccole aziende, la Doc si conferma prezioso baluardo a difesa di produzioni che altrimenti rischierebbero la scomparsa. Nella seconda puntata del nostro giro d’Italia iniziamo dal Friuli con l’accoppiata Picolit-Ramandolo. Vino immagine con costi di produzione elevati (e una media produttiva di 1500-2000 bott/azienda) che “nemmeno i 20-25 euro a bottiglia riescono spesso a ripagare” conferma Adriano Gigante presidente del Consorzio Friuli Colli orientali “il Picolit ha visto ridursi nell’ultimo triennio del 15% la superficie rivendicata (da 60,8 a 52,5 ha) e del 20% il vino rivendicato (da 823,6 a 673,8 hl) – a seguito anche delle riduzioni di resa per la Docg - in un trend che rimarrà stabile nel futuro”. Prodotto da regalo, il Picolit si vende per il 30% in cantina, il 10% in regione il 40% in Italia ed il restante 20% all’estero “ma la crisi non inciderà su questi numeri” continua Gigante “perché è un prodotto di nicchia supportato dalla garantita: piccoli numeri per una Do che deve rimanere distinta per non perdere identità, a fronte invece di altre tipologie per le quali stiamo lavorando ad una Doc regionale”.
Più importante il discorso per il Ramandolo, dove la Docg si rivela una sorta di baluardo contro una crisi che si fa sentire in modo pesante. Da 53 a 38 gli ettari, e da 1330 a 1056 gli ettolitri di vino rivendicato (per ca 160.000 bottiglie) nel triennio passato, sono i numeri di una difficoltà commerciale “che pesa molto in una realtà come la nostra”commenta Sandro Vizzuti, vicepresidente del consorzio Friuli Colli Orientali “dove il Ramandolo è un vino da reddito in aziende con 5ha di vigneto medio”. Con il 50% di vendita diretta, 10% in regione e 40% in Italia, un mercato interno in picchiata e la difficoltà dei produttori a mettersi insieme per affrontare l’estero, il tessuto produttivo del Ramandolo soffre, ma riesce a rimanere in vita grazie alla docg.
Più articolato il caso del Pergola Doc, nell’entroterra pesarese, dove la Do del 2005 salva la storia della “Vernaccia di Pergola”, vino noto fin dalla fondazione del borgo nel 1200 e che correva il rischio di scomparire: “l’analisi genetica del vitigno (rivelatosi clone di Aleatico) e una battaglia lunga 15 anni” racconta Franco Tonelli, presidente del Consorzio di tutela “contro chi non voleva ingrandire la famiglia delle Vernacce doc, ci ha permesso di salvare questo vino quasi millenario dall’abusivismo optando per un nome di territorio, Pergola, comunque evocativo”. E la Doc imprime entusiasmo sul territorio: gli ettari vitati da 30 arrivano a 50, le aziende da 3 a 5 e soprattutto si affacciano i giovani, la seconda generazione dei viticoltori che ancora oggi governano le aziende. “Ma insieme alla Doc è arrivata anche la crisi” continua Tonelli “e così questa crescita si è fermata”. Dei 2800 hl annui prodotti la metà si vende in bottiglia (70% in regione, 15% in Italia e 15% all’estero) e l’altra metà sfuso “ma la Doc è un baluardo irrinunciabile perché rappresenta e difende la nostra identità e sarà il trampolino da cui ripartiremo alla fine della crisi”.
Una storia analoga la ritroviamo nell’agro aversano con l’antico, nobile e, ormai, raro, Asprinio. Quello delle straordinarie “alberate” (e della vendemmia degli uomini-ragno), vigneti a 15 metri di altezza “ottimi per la produzione dello spumante”, racconta Carlo Numeroso, storico produttore dell’azienda I Borboni. Da 300 a 200 mila bottiglie la flessione produttiva degli ultimi cinque anni “dovuta alla crisi dei consumi che non si è accompagnata”continua Numeroso “però ad un analogo espianto perché la versatilità dell’Asprinio ne fa vitigno per tutte le tipologie dallo spumante al passito”. Venduto per il 70% in regione, 20% in Italia e 10% all’estero “in questi anni difficili è tornato lo sfuso grazie al quale non abbiamo eccedenze e facciamo quadrare i bilanci aziendali”conclude il produttore “grazie ad una Doc che oggi difende la nostra storia e identità e domani ci consentirà di tornare a crescere”.
Attese di sviluppo commerciale confermate da un grande distributore horeca di vini a livello nazionale (6 milioni di fatturato vino per 250 etichette distribuite): “Le potenzialità di crescita di una piccola doc, oggi, sono maggiori di ieri e più forti anche rispetto alle Do grandi” sostiene Pietro Pellegrini di Bergamo “l’attenzione del consumatore verso le identità territoriali premierà sempre più quelle Do che rappresentano prodotti caratterizzati territorialmente”. Come il Moscato di Scanzo, con cui concludiamo questo tour, nato da una costola del Valcalepio nel 2002 come doc, diventato Docg (la più piccola d’Italia) nel 2009 “con una svolta decisiva”dice Angelica Cuni, presidente del Consorzio (che raggruppa 21 delle 24 aziende produttrici per il 70% del prodotto) “perché ci ha restituito una nuova identità consentendoci di valorizzare bene un prodotto particolare mantenendo il prezzo remunerativo che il Consorzio ha fissato tra 28-35€ a bottiglia”. Le 60 mila bottiglie (da lt 0,50) prodotte, si dividono tra Italia ed estero (15%) e la vendita diretta in cantina per il 70%, con il restante 15% tra provincia bergamasca e Milano. “Credo nel futuro della nostra Doc” sottolinea la Cuni “il mercato c’è, i 31 ettari vitati potranno diventare 100-120, ma solo se rimarremo autonomi come Do e Consorzio. Lavoro faticoso ma senza il quale rischieremmo la scomparsa”.
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a cura di Giulio Somma
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 1 agosto. Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. E' gratis, basta cliccare qui.