“Petrini ha ragione: noi viticoltori delle Langhe siamo come gli indiani nelle riserve". Parla Matteo Ascheri

7 Nov 2024, 16:41 | a cura di
L'ex presidente del Consorzio di tutela era stato il primo a lanciare l'allarme contro l'invasione da parte dei fondi di investimento. Adesso rincara la dose: "Sembra di stare al circo. I grandi investitori ci tolgono l'anima"

Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, ha lanciato l’allarme. Le Langhe sono diventate un luogo esclusivo, con il prezzo dei terreni alle stelle che attira solo grandi investitori. Inoltre, l’aumento della ricchezza sta rovinando la coesione delle comunità locali. Sul punto, abbiamo chiesto un parere al Consorzio di tutela dei vini delle Langhe che non ha ritenuto utile intervenire nel dibattito. La parola dunque a Matteo Ascheri, che del consorzio è stato presidente fino a pochi mesi fa e che, in dissenso con il nuovo corso, aveva annunciato, lo scorso giugno, la sua fuoriuscita dall'ente di tutela. Durante la sua presidenza aveva lanciato un allarme sull’invasione del territorio da parte dei fondi di investimento denunciando l’aumento dei costi dei terreni a puro scopo speculativo con il convegno “Langhe not for sale” svolto alla fine di gennaio di quest’anno.

foto dell'evento "Langhe (not) for sale", organizzato dal Consorzio di tutela

Secondo Petrini, nelle Langhe ci sono ormai “barriere all’entrata insormontabili” tanto che risulta impossibile fare impresa senza fare debiti enormi. Lei che ne pensa?

È vero. O sei miliardario o non ce la fai. C’è bisogno di una grande liquidità, poi servono quattro anni di attesa per mettere in produzione i vigneti e poi altri quattro anni di attesa in cantina. Impossibile farcela se non hai ereditato. Solo i grandi investitori possono farcela, ma a scapito dei viticoltori.

Terra Madre 2022 Carlo Petrini

Carlo Petrini

Il fondatore di Slow Food sostiene pure che sono pochissime le cantine nuove nate negli ultimi 20 anni. E che attirare il mondo della finanza e dei grandi gruppi di investimento significa sradicare l’autenticità del territorio.

Quando ero presidente del consorzio ho sempre fatto delle distinzioni. Antinori che acquista Prunotto per me va bene: è del settore. Ma chi proviene da altri settori economici per investire in Langa con intenti speculativi ci toglie l’anima. La personalità dell’azienda è ciò che ci rende diversi: se la togli, rinunci all’ingrediente base. È come togliere la nocciola dalla nutella.

Il problema principale è il costo dei terreni che è arrivato alle stelle…

Certo. Per pagare un ettaro di Barolo ti servono 90 anni. Con i prezzi alle stelle il viticoltore non ce la fa. C’è un vecchio detto inglese molto efficace: “Qual è il segreto per costruire una piccola fortuna nel campo del vino? Basta partire da una grande fortuna”. E gli inglesi il vino non lo hanno mai fatto. Se vuoi aprire un birrificio ti bastano gli impianti e una buona acqua: per il vino no, è un settore molto più rigido. E c’è il peso del terreno, un fattore che costa carissimo.

Panorama Langhe

La responsabilità è degli investitori?

Il costo del terreno è un valore finanziario legato a speculazioni. I fondi investono in settori che promettono una remunerazione: l’obiettivo è comprare a uno e poi rivendere a uno e mezzo. Questi soggetti comprano più aziende, le accorpano e riducono i costi licenziando. Si vantano di aver aumentato l’ebitda e poi rivendono. Anche il Barolo è esposto a questo rischio.  I fondi non vengono perché amano il Barolo, ma perché hanno quell’altro obiettivo.

Il fenomeno è davvero così diffuso in Langa?

Spesso dalle banche arrivano queste richieste: vuoi vendere la tua azienda? Oppure conosci qualcuno che vuole venderla? Sono domande attivate da soggetti che hanno parecchi milioni da investire. Ovviamente non conosciamo tutti i movimenti, ma il fenomeno è crescente. Proprio per questo, quando ero presidente del consorzio ho dedicato all’argomento un convegno di Changes in apertura di Grandi Langhe 2024 dal titolo: “Langhe not for sale”. Rivendico il merito di averne parlato per primo.

Qual è l’impatto sulle famiglie che fanno viticoltura da sempre?

Tante aziende sono ancora indivise e così sono stimolate a vendere. Per esempio, quando c’è un fratello che è rimasto in casa e gli altri che sono andati via e che sono spinti a vendere, magari al fratello che è rimasto. Ma a quei prezzi è impossibile. Così si creano dissidi all’interno delle stesse famiglie. Serve una presa di coscienza: è quello che ho cercato di fare.

Nessuna speranza per le famiglie storiche?

Gli investitori esterni cercano sempre di mettere alla guida dell’azienda un frontman. Hanno bisogno che tu rimanga perché storicamente nelle Langhe le aziende sono basate sulle persone. È come essere al circo: da una parte c’è il padrone e poi c’è chi si esibisce. Ma non tutti accettano questo compromesso. Per esempio, dopo l’acquisto di Borgogno da parte di Farinetti, Cesare Boschis se n’è andato.

È quello che è successo da Vietti?

In verità, Kyle Krause è quello che si è comportato meglio. Ha lasciato in sella il management locale e ha un’etica professionale molto elevata. È stato per esempio tra i più sensibili sul tema del caporalato. Il suo approccio è stato delicato: certo, ha fatto aumentare i prezzi, ma ha portato una ventata di novità positive.

Insomma, non tutti gli investitori sono un fatto negativo…

Dipende… Cosa diversa sono alcuni fondi di investimento. È vero che l’offerta è limitata ma a volte i terreni sono strapagati fino a 4-5 volte di più. Questo processo fa perdere identità: per anni mancavano i terreni da acquistare, ora invece molti venderebbero volentieri ma i vicini non possono permettersi di comprarli. Ma se rinunci alla dimensione familiare qui diventiamo come gli indiani nelle riserve.

Ci sono soluzioni?

No, i capitali non si fermano. Ma serve aumentare la consapevolezza cercando di preservare l’esistente.

Petrini dice che le Langhe rischiano di fare la fine di Bordeaux.

Bordeaux attraversa una crisi nera: molti stanno estirpando i vigneti. Il paradosso è chiaro: il valore fondiario fa venire voglia di piantare ma poi diventa una rincorsa e manca chi coltiva. Viceversa, meno vino produci e meglio lo vendi. Ma le Langhe sono più simili alla Borgogna: la proprietà qui è molto parcellizzata, trovi aziende molto piccole. Batasiolo, Fontanafredda, Terre di Barolo e Marchesi di Barolo sono le eccezioni: grandi e strutturate. Così i fondi che arrivano trovano soprattutto aziende piccole da accorpare.

vigneti di Bordeaux

È vero, come accusa Petrini, che nelle Langhe l’aumento della ricchezza ha prodotto il degrado della socialità delle comunità locali?

Le sofferenze accomunano. Se le cose vanno bene prevale l’individualismo. Sì, c’è meno coesione, ma è un po’ l’evoluzione di tutta la nostra società. Una volta i titolari sapevano tutto delle loro cantine: oggi gli esponenti delle nuove generazioni sono export manager che girano il mondo. Io sono del 1962: ho vissuto lo scandalo del metanolo e ho contezza di quello che eravamo e che siamo. Ma i nuovi vedono la nostra generazione come se fossimo “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi.

Come si governano questi cambiamenti?

Fa piacere che ci siano investimenti ma “Langhe not for sale”. Non si possono mettere regole, ma interroghiamoci sul nostro futuro: bisogna creare una coscienza nelle famiglie per comprendere i cambiamenti e reagire.

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