politico nell’accezione migliore del termine, vale a dire capace di ascoltare, mediare, proporre, condividere scelte e decisioni (non sempre facili).
Quello che, invece, il popolo del Vinitaly non sa è che Mario Catania è un autentico “wine lover” come si dice oggi, un distinto signore che la sera, a casa sua, stappa una bottiglia di Nebbiolo o di un Grillo siciliano e se la gode in santa pace con la famiglia, e che è in grado, come fa con Tre Bicchieri, di raccontare con assoluta proprietà di linguaggio le caratteristiche di un vino così come sa raccontare di quella volta, nel 2008, che il commissario europeo all’agricoltura, Mariann Fischer Boel, ultraliberista danese, impose la cancellazione dei cosiddetti “diritti d’impianto” che è il problema più scottante nell’agenda vinicola di questi giorni.
Partiamo da qui, ministro. Sembra un paradosso che l’Europa liberista delle banche e della moneta debba mantenere in vita un meccanismo di tipo protezionistico.
Non è così. L’Europa non è l’Australia e la filiera vinicola è un sistema produttivo delicato che non può essere abbandonato a un “laissez faire” ideologico.
Ma il principio domanda-offerta vale anche per il vino.
Certo, ma il vino non è una commodity replicabile ovunque, indifferentemente. I vini di Bordeaux si possono fare solo lì e le nostre doc nascono dalla storia e dalla sapienza dei territori. Senza l’ombrello dei diritti d’impianto si rischia di sconvolgere equilibri secolari, equilibri ambientali, equilibri economici. E sul punto, a Bruxelles c’è l’unanimità dei Paesi produttori.
Che sono anche gli “azionisti di maggioranza” dell’Unione. Allora uno si chiede: perché nell’Ocm del 2008 fu introdotto questo principio che non sta (e non stava, immagino) bene a nessuno?
Perché l’Ocm, come tutti i grandi strumenti regolatori sovrannazionali, è il frutto di compromessi legittimi tra gli Stati. All’epoca, la commissaria europea Fischer Boel, si era messa in mente di cancellare quelli che, secondo lei, erano i caposaldi di una politica agricola europea protezionistica e corporativa. E sui diritti d’impianto fece una vera battaglia di principio.
Non ha il sospetto che avesse ragione?
Aveva ragione solo nella proposta, poi diventata regola, di cancellare gli aiuti alla produzione, tutti i milardi impegnati nella distillazione e nelle vendemmie verdi. Aveva ragione quando proponeva un piano di estirpazione dei vigneti che è stato poi applicato ed è stata la fortuna della viticoltura europea. Ma sui diritti sbagliava.
Però la liberalizzazione, allora, passò.
Passò ma con un lunghissimo rinvio al 2015 così da tranquillazzare i politici che, come si sa, lavorano sul breve periodo. Ma nell’Ocm Vino del 2008 non c’erano solo i diritti d’impianto.
E che cosa c'era d'altro?
C’era, tra le tante altre cose, la rimodulazione dei plafond finanziari per i vari Paesi. Aggiungo che allora l’Italia, ministro Paolo De Castro, portò a casa il plafond più alto. Ricordo che il ministro francese dell'agricoltura, Michel Barnier (oggi commissario al mercato interno:ndr) si complimentò con me, che accompagnavo De Castro, dicendomi che avevamo negoziato molto meglio dei francesi.
E a che cosa sono serviti tutti quei quattrini dell'Europa?
A fare della viticoltura italiana il gioiello produttivo che conosciamo, la voce più importante del made in Italy agroalimentare, la prima della bilancia commerciale con 4,4 miliardi di euro di esportazioni.
E’ questo che dirà al popolo del Vinitaly domenica prossima? E così che conquisterà l’applauso dei vigneron italiani?
Guardi che io non cerco l’applauso o il consenso facile come sanno tutti i rappresentanti delle organizzazioni di categoria con cui ho consuetudine da decenni visto che sono entrato qui al Ministero dell’Agricoltura che avevo 26 anni, ricordo ancora il primo giorno di lavoro, 1° agosto 1978, all’ufficio pensione della Direzione del personale, e sono ancora qui, ora da ministro.
Niente retorica, allora, al Vinitaly.
Posso dirle che anni e anni di lavoro a Bruxelles e poi al Ministero mi hanno abituato alla soluzione concreta dei problemi, senza fumisterie dialettiche. Al popolo del Vinitaly, come lo chiama lei, dirò che la viticoltura italiana sta bene, ha fatto passi da gigante sulla strada della qualità e dell’efficienza, ma non può permettersi neanche un attimo di distrazione. E’ una viticoltura finalmente “export oriented”, ma proprio per questo deve diventare ancora più competitiva perché le mode (vinicole) passano e la sfida dei concorrenti, i francesi in primis, diventa sempre più temibile.
E allora che cosa deve fare la viticoltura italiana?
Crescere, crescere, crescere. In qualità e in dimensione. Quattrocentomila produttori sono troppi, le aziende troppe piccole. Bisognerà trovare forme di aggregazione.
E sono troppe anche 500 doc e docg.
Il gran numero dei vitigni e dei vini è una grande ricchezza del Paese. Oggi e in prospettiva perchè credo che alla lunga il mondo si stancherà di bere solo Cabernet Sauvignon e Merlot. Detto questo, forse 500 doc e docg sono troppe.
Non teme che l’Europa, che da quest’anno è competente per le Do, ce ne rimandi indietro un po’?
Guardi che sommando Francia Germania Spagna e tutti gli altri si arriva a migliaia di Do. Non credo che la DirAgri di Bruxelles si metterà a controllarle una per una. Però, ripeto, non è con una doc in più che si risolvono i problemi.
E tra i problemi, forse il più grande è quello del default del Catasto viticolo: dati che non corrispondono, denunce di produzione impossibili.
In molte regioni i dati coincidono, in altre no e stiamo cercamdo di capire perchè. Aggiungo che non sono per niente soddisfatto di come ha lavorato l’Agea e nom mi riferisco, naturalmente, alla gestione del presidente Dario Fruscio (ora ritornato via Tar dopo essere stato allontanato dall'ex ministro Romano:ndr)
Così come non è soddisfatto,immagino, della piega che ha preso la questione certificazione con lo scontro al calor bianco tra gli enti privati di certificazione e le Camere di Commercio.
Stiamo lavorando anche su questo problema e posso anticiparle che abbiamo trovato una soluzione. Più semplice di quanto si immagina.
Può essere più preciso?
Le Camere di Commercio sono una creatura centauresca: soggetti pubblici e privati allo stesso tempo. Per questo non possono essere accreditate da Accredia come un qualsiasi ente privato di certificazione.
E allora?
Saremo noi, il Mipaaf, ad accreditare le singole Camere, badi bene le singole Camere, non tutto il sistema camerale, attraverso verifiche che faranno i nostri ispettori dell'Icqrf. Spero che in questo modo si chiuda la querelle e il sistema della certificazione continui a lavorare in tranquillità. Le polemiche commerciali tra Valoritalia e Camere di Commercio non interessano il Mipaaf.
di Giuseppe Corsentino e Carlo Ottaviano
23/03/2012