La quarta edizione di “Oltrepò – Terra di Pinot Nero, un territorio, un vitigno, due eccellenze” (30 settembre) è stato un momento di svolta per la denominazione con l’esordio ufficiale del neo direttore del Consorzio Riccardo Binda e della presidente Francesca Seralvo. Una nuova compagine che avvia un percorso di rinnovamento fondato su filiera, qualità e trasparenza. Ma che nasce tra le polemiche dopo l’uscita dal cda dei rappresentanti degli imbottigliatori, tra i quali Quirico Decordi della Vinicola Decordi. Delle sfide dell’Oltrepò e della nuova fase del consorzio abbiamo parlato con Umberto Callegari, ceo di Terre d’Oltrepò, che raccoglie le più antiche esperienze cooperative del territorio. Nata nel 2008 dalla fusione tra la Cantina di Casteggio (1907) e la Cantina Sociale Intercomunale di Broni (1960), nel 2017 acquisisce La Versa, storico brand fondato nel 1905. Il suo voto è stato decisivo per dare voce in cda ai produttori di filiera e scegliere Seralvo come guida.
Veniamo da mesi di polemiche sul cambio della governance nel consorzio. Lei come risponde?
Le polemiche sono state fatte da chi ha avuto sempre il pallino della situazione. Gli imbottigliatori lavorano al 2,5% di ebitda, le aziende di filiera di successo vanno dal 15 al 33: a livello economico non c’è discussione, la via da seguire è la filiera integrata. In questi anni c’è stato chi ha approfittato della logica della cisterna ma oggi, così, in Oltrepò hai una valutazione di 20-25 mila euro per ettaro mentre in Valtellina arrivi a 70 mila euro l’ettaro. Se questo è il modello operativo è doveroso cambiarlo.
Cambiare come?
Come cooperative il nostro obiettivo è quello di appoggiare un modello di filiera vinicola integrata. L’altro modello non ha portato il bene dell’Oltrepò. Non è un problema politico, è un problema economico: serve una marginalità più alta.
Qualcuno accusa: la nuova presidenza risponde a lei. Solo maldicenze?
Polemiche, dicerie, mancanza di trasparenza: tutto ciò va eliminato. Francesca Seralvo rappresenta la parte migliore dell’Oltrepò. È una donna competente, ha un’immagine positiva. Certe accuse sono assurde.
Qual è stato il problema dell’Oltrepò pavese fino ad oggi?
L’assenza di quella dimensione che permette di raggiungere economie di scala. Cavit per esempio è una tra le più importanti realtà italiane per fatturato, ciò nonostante è ancora piccola nel contesto internazionale.
Quindi?
L’Italia non ha mai fatto sistema: abbiamo una grande artigianalità e tante eccellenze, ma il made in Italy resta una somma lineare. Manca la moltiplicazione al quadrato degli utenti annessi. La Francia e gli Stati Uniti hanno un approccio più sistemico: ogni singolo produttore è aiutato a competere grazie a dei sistemi che lo valorizzano.
A maggior ragione in Oltrepò?
Soffriamo un ritardo di managerialità, siamo ancora troppo artigianali. Ci si maschera dietro la unicità del mondo del vino, ma poi c’è sempre la sfida della gestione aziendale e manageriale. Il mondo del vino sarà più affascinante e divertente ma devi comunque aumentare la marginalità, non basta la gestione agricola.
Era questo il punto di debolezza della vecchia direzione? Avete sostituito Carlo Veronese anche per un difetto di managerialità?
Veronese è un professionista serio, ma se devi cambiare il modello devi cambiare anche le persone. Se sei una squadra di calcio e vuoi cambiare gioco devi cambiare l’allenatore.
E lei ha avuto un ruolo nella scelta del nuovo allenatore/direttore…
Ho incontrato Riccardo Binda a Milano: guardo la competenza. L’Oltrepò è un problema di leadership e di competenza. Riccardo Binda è stato scelto perché è stato bravo a cambiare un territorio importante come Bolgheri. La logica italiana purtroppo è far finta di cambiare per non cambiare nulla.
Un cambiamento che si realizza sotto la regia di una cantina sociale come Terre d’Oltrepò…
Sì. Noi abbiamo detto no alla logica della cisterna e abbiamo spinto per un consiglio di amministrazione composto da tutti i produttori di filiera.
È un attacco agli imbottigliatori?
No, ma il modello di business fondato su alte quantità e prezzi bassi è sbagliato e va superato. Per esempio, insistere nella sovrapproduzione di tipologie di vino come la Bonarda che non producono marginalità ferisce il territorio. Ho rivisto i bilanci de La Versa, cantina storica dell’Oltrepò (nata nel 1905, inizia a esportare nel mondo negli anni Trenta e dopo una fase di crisi alla fine del secolo scorso viene acquisita da Terre di Oltrepò nel 2019, ndr): nel 1989 fatturava 34 miliardi, tanti soldi per quell’epoca. E Casteggio era una delle zone più ricche d’Italia. Poi è arrivato il modello della cisterna e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è nessun complotto contro gli imbottigliatori: è arrivato il momento di cambiare. Ma c’è chi non vuole.
E questo cambiamento può arrivare dalle cooperative?
Provengo da esperienze di management in aziende come Microsoft, Accenture e Deloitte. Da quando sono amministratore delegato di Terre d’Oltrepò ho cercato di costruire un advisory board che poche altre aziende possono vantare: sono grandi manager provenienti da esperienze importanti, tutti originari di questa zona, che si sono messi al servizio del territorio. Abbiamo creato una credibilità e siamo convinti che bisogna cambiare: ora o mai più.
Qual è la sfida specifica dell’Oltrepò nel mercato del vino?
Noi abbiamo la grande opportunità del metodo classico italiano. Tanti parlano male di Prosecco e Lugana ma chi riesce a inventare un vino che raggiunge questi successi va apprezzato. Nel comparto del metodo classico, Franciacorta e TrentoDoc non hanno più la possibilità di aumentare i volumi. Come può fare l’Italia a crescere sfidando i competitori internazionali? Può farlo solo con la crescita dell’Oltrepò.
Che cosa serve per aumentare la competitività della denominazione?
In primo luogo, serve un centro di pressatura condivisa. Abbiamo quattromila aziende produttrici che non riescono a fare massa con una dispersione del capitale investito. Viceversa, i sistemi vitivinicoli che funzionano sono capaci di fare, appunto, sistema. Creiamo allora un centro operativo.
Sembra una strategia cucita addosso alla cooperativa. Si candida a svolgere questo ruolo?
Sì, Terre d’Oltrepò si candida a svolgere questo ruolo. La cooperativa diventerà una holding ispirata al principio mutualistico sul modello di Granarolo: servizi a vantaggio dei produttori e managerialità. Del resto, con tremila ettari di Pinot Nero non possiamo limitarci a 600 mila bottiglie. Io mi auguro che tutti producano centinaia di migliaia di bottiglie: ciascuno le farà con la liqueur scelta in casa, ma appoggiandosi a questo centro di servizi. Vogliamo fare di La Versa il simbolo dell’Oltrepò.
In questo scenario non c’è più spazio per gli imbottigliatori…
Il modello degli imbottigliatori non è quello della filiera, ma funziona solo con gli alti volumi. Se passa il nostro modello, gli imbottigliatori avranno meno volumi da imbottigliare. A meno che non diventino parte della filiera.
Insomma, avrebbero dovuto acquistare terreni per non essere “disintermediati”?
Non posso entrare nelle loro scelte, so solo che il loro modello è concentrato soltanto sull’ultimo miglio e che imbottigliano anche prodotti di altri territori. Viceversa, la soluzione migliore per il nostro territorio è la filiera integrale. In questo senso, Cavit e Santa Margherita sono modelli interessanti.
Qualcuno ha detto che l’Oltrepò deve scegliere se produrre vini da “gioielleria” o vini da “bigiotteria”. Lei come risponde?
Negli anni ’80 quelli oltrepadani erano vini da gioielleria. Negli anni il modello è cambiato: altissimi volumi con decine di milioni di bottiglie con valore più basso. Ora vogliamo cambiare, valorizzando la filiera. Certo, il volume dovrà esserci: l’Oltrepò dovrà fare 20 milioni di bottiglie, ma dovrà anche venderle ai prezzi della Franciacorta. Forse la verità sta nel mezzo, ma se puntiamo a vendere una bottiglia di spumante a 25-27 euro andiamo verso la “gioielleria”.
Ha parlato finora di strategia e prezzo, ma il cambiamento riguarda anche altre voci: brand, turismo, mercati…
Certo. Tutte voci legate al modello operativo che può generare un volano virtuoso anche per il brand e per il turismo. In passato la ricerca del successo è stata fatta in ogni modo, ma l’etica non è mai sacrificabile. La miopia di questi anni ha impedito di leggere il cambiamento. Ma il cambiamento è l’unica cosa certa.
Parlando con il Gambero Rosso, Quirico Decordi ha detto che l’Oltrepò non cambierà mai e che voi non riuscirete nel vostro intento.
Forse fanno una macumba. Ma se non ci sarà il cambiamento non ripartirà il territorio. Del resto, nessuna regione si basa sull’economia del vino sfuso, né in Italia né all’estero. Sono dinamiche che riguardano anche altri mercati, come quello dell’auto. Di fronte alla sfida della Cina sul fronte delle utilitarie, Marchionne ha concentrato la Fiat nella produzione di brand come la 500 e la Jeep. Vale anche per il vino. Ma in quello che dico non c’è nessun dispetto agli altri. Ognuno fa il suo piano. Sappiamo però che l’alternativa l’abbiamo già vissuta negli ultimi trent’anni e non è stata efficace.
C’è lo spazio per recuperare i rapporti con gli imbottigliatori?
Spero di sì, massimo rispetto e affetto per loro. Abbiamo definito un progetto: se vorranno farne parte saremo ben contenti. È chiaro che perdono centralità, ma non possiamo fare le cose facili: come si fa senza gli agricoltori? Dobbiamo fare le cose giuste sul piano etico e le cose utili sul piano economico. Serve un posizionamento corretto per creare valore.
Intanto Terre d’Oltrepò ha preso la leadership della denominazione…
È evidente: siamo stati i primi a cambiare. Adesso però tutte le aziende che a livello consortile erano fuori, da Travaglino a Torrevilla, sono rientrate. È normale: i protagonisti della filiera stanno dalla parte della filiera.