È addirittura riduttivo dire che si tratta di uno dei brand più conosciuti al mondo, con notorietà e fama che corrono ben oltre i confini del vino. Un nome che richiama lusso, esclusività, bien vivre, e che per gli appassionati di ogni dove si traduce in bottiglie emozionanti e senza tempo, capaci di suggestioni uniche e memorabili. Tutto giusto, tutto vero.
Eppure grattando sotto la copertina patinata, una volta scansati i lustrini e aggirate le luci abbaglianti, si può scoprire un mondo dello Champagne meno monolitico e prevedibile di quel che si immagina. Intanto il monopolio dei grandi marchi ha subito negli ultimi anni qualche colpo da parte di una schiera crescente di piccoli produttori agguerriti, determinati a scalfire l’esclusiva commerciale delle grandi maison e impartire una svolta epocale all’idea stessa di Champagne costruita dalla storia.
Se la strada maestra delle grandi aziende, a parte rarissime eccezioni, ha sempre messo l’idea di cuvée al centro della scena, prediligendo lo stile maison e la tecnica di cantina dello chef de cave più che le caratteristiche di questa o di quell’altra parcella di vigna (un’idea per certi versi vicina a quella di altri beni di lusso, come ad esempio i profumi creati dai grandi “nasi”), i piccoli vigneron hanno invece investito sul primato del terroir.
Una produzione industriale, seppure di altissimo livello, dove la costanza e la riproducibilità stilistica ha sempre giocato un ruolo chiave, contrapposta a un’idea decisamente artigianale, con le oscillazioni tra le annate e le differenze impartite dal terroir quale pietra angolare. Due mondi distinti e dialettici, una piccola lotta intestina che però, lungi dall’aver intaccato l’immagine della regione, ha semmai contribuito ad accrescerne l’appeal.
Comunque, ad alcuni anni dall’avvio del movimento, la nuova tendenza si presta a una lettura più stabile, definita e puntuale rispetto alla tumultuosa fase iniziale. Possiamo dire che gli Champagne de vignerons non hanno mutato più di tanto il quadro della denominazione, almeno nelle sue linee generali. Più forti a livello mediatico che commerciale, i “piccoli” hanno rosicchiato una quota di mercato tutto sommato minima.
In Italia i consumatori di Champagne si dimostrano fedeli ai soliti noti, tanto che i grandi marchi occupano un’invidiabile 86% del mercato (nel mondo la media è del 69%, se si include anche la Francia), seguito dal 9% dei récoltant, mentre il restante è ad appannaggio delle cooperative. Anche in termini di preferenze stilistiche, dopo l’entusiasmo iniziale degli appassionati più attenti e sensibili, i big della regione paiono recuperare posizioni, anche a fronte di una variabilità qualitativa dei vigneron che in alcuni casi è addirittura spiazzante, anche se piuttosto affascinante sul piano della declinazione territoriale.
La sensazione è che ci sia spazio per tutti e che entrambi gli schieramenti abbiano beneficiato della concorrenza. Basti pensare alle cuvée base delle maison più importanti, sensibilmente cresciute negli ultimi tempi anche grazie allo stimolo e ai percorsi di rinnovamento disegnati dai vignaioli e dalle loro bottiglie.
Anche la sensibilità ambientale è cresciuta di pari passo, e possiamo certamente sostenere che l’esempio virtuoso del nuovo corso ha inciso anche sulle decisioni delle aziende storiche. Non di rado, infatti, dai vignaioli di nuova generazione sono arrivate lezioni di eco-sostenibilità e rapporto simbiotico con la natura, in molti casi ancorati a principi radicali, dettami biologici e spesso biodinamici. Non è un caso, per dire, che tra i più celebri produttori di questa tendenza ci sia un personaggio carismatico e dall’approccio massimalista come Anselme Selosse. Un bene, certamente, visto la pericolosa deriva che aveva preso la regione in termini ambientali. Non è un segreto che nel tempo si siano usati allegramente i rifiuti urbani come concimi e che la gestione della vigna non fosse esattamente “naturale”.
Fa dunque piacere scoprire oggi un nuovo corso legato a chiare politiche ecosostenibili che mettono la filiera champenois al centro di quattro percorsi fondamentali legati al controllo dell’inquinamento (specie in merito ai fitofarmaci), alla tutela e valorizzazione del territorio (in riferimento alla biodiversità e ai paesaggi), alla gestione responsabile dell’acqua, al risparmio energetico e climatico. Alla fatidica domanda: “come sta lo Champagne oggi?”, anche in riferimento alla crisi globale che attanaglia i consumi, possiamo rispondere dunque: “piuttosto bene”.
E in Italia? A fronte di un totale di oltre 320 milioni di bottiglie distribuite, il nostro Paese si conferma un mercato di riferimento per la tipologia. Con oltre 7 milioni e 600 mila bottiglie consumate ogni anno (figlie dei 470 marchi presenti) siamo il sesto paese al mondo per volumi importati. Considerando i tempi, davvero niente male…
Antonio Boco e Giuseppe Carrus
dicembre 2012