Usa, 1980. C'era una volta in America - o meglio non c'era ancora - il vino italiano. Oggi sembrerebbe preistoria, considerato che parliamo del primo Paese di destinazione per le nostre esportazioni vitivinicole: 1,1 miliardi di dollari nel 2014.
Cosa è successo nel frattempo? Nel mezzo c'è stata un'evoluzione fatta di numeri, opportunità, nuove circostanze socio-economiche e soprattutto fatta di persone. Tra queste ultime, anche un italiano che ebbe l'intuizione di introdurre i vini del suo Paese d'origine in quel Nuovo Mondo, ancora regno della coca-cola e degli hamburger. Stiamo parlando di Leonardo Lo Cascio e del suo Winebow, gruppo di importazione di vini negli Usa, che oggi, dopo la fusione con The Vintner Group, è diventato un colosso da 1.200 dipendenti, 122 brand e 600 milioni di dollari di fatturato.
Sul fronte italiano - a cui si è sempre prestata particolare attenzione, in particolare grazie alla Leonardo LoCascio Selections (Lls) - oggi il gruppo rappresenta un portfolio di 50 aziende in esclusiva con un totale di 400 etichette. Nel 2014 ha venduto 1,2 milioni di casse di vino dal Belpaese e la previsione per il 2015 è di 1,5 milioni. Ma, al di là dei numeri, la notizia è che Lo Cascio, il suo fondatore, ha annunciato al mondo che lascerà il gruppo il prossimo 30 giugno. Lo abbiamo intervistato per fare il punto su questi suoi 35 anni di onorato servizio.
Facciamo un salto indietro. Cosa si ricorda di quell’America degli anni ’80 in rapporto al vino italiano?
Più che sul rapporto col vino italiano, mi soffermerei sul vino in genere. Se oggi possiamo parlare di un prodotto alla portata di tutti, allora era considerato roba da gente snob e sofisticata. A tavola si preferiva bere birra o direttamente superalcolici. Il vino non era contemplato.
E poi cosa successe?
Più di un evento in realtà. Il primo corrisponde al nome di French paradox, ovvero ci si cominciò a chiedere come mai in Francia, nonostante una cucina molto grassa, l’incidenza di malattie cardiovascolari fosse molto meno preoccupante rispetto agli Usa. Da lì il vino venne considerato un rimedio a queste malattie e i medici cominciarono a prescriverlo a tavola, quasi come si trattasse di una medicina. Sempre sul piano salutista, si diffuse la Dieta Mediterranea, fino a diventare una fenomeno nazionale. Non da meno si intensificarono i viaggi e il diffondersi dello stile di vita europeo e italiano, in primis cibo e vino. Infine una svolta epocale fu data dalla degustazione di Parigi del 1976, quando per la prima volta e inaspettatamente i vini californiani riuscirono a battere quelli dei padroni di casa in una degustazione alla cieca. Era nata la viticoltura americana.
E in che modo questo incise positivamente sul vino italiano?
Al contrario di cosa si possa pensare, questo fu l’inizio della fortuna dei vini italiani in America. Le due produzioni non sono in contrapposizione perché le varietà americane sono così ridotte da non poter competere con l'elevato numero italiano. Chi inizia a bere vuol conoscere sempre di più. La produzione interna fu, insomma, uno stimolo per avvicinare la popolazione al vino e questo aprì le porte alle importazioni.
Ed è in questo contesto che si inserisce Winebow…
Esatto. Allora il vino era diffuso solo sulle due coste, San Francisco e dintorni da una parte, New York dall’altra. Al centro non esisteva ancora. Il Chianti era venduto nei fiaschi, il Verdicchio nell’anfora: si comprava più il contenitore che il contenuto. Ma intanto l’Italia stava facendo passi da gigante.
Quali erano i vini che andavano per la maggiore?
Dapprima i soliti quattro: Barolo, Brunello, Amarone, Chianti Classico che nel frattempo cominciò a staccarsi dall’idea del vinello da osteria. E poi arrivò la grande invenzione di Wine Spectator: i Supertuscan. Erano vini difficili da identificarsi che si erano distaccate dalle doc italiane, allora un po’ troppo antiquate. Si pensi ad esempio che nel disciplinare del Chianti era prevista una percentuale di vitigni a bacca bianca. Questi asincronismi portarono alcuni produttori a creare dei vini nuovi che per alcuni anni rimasero in una terra di nessuno, fino alla grande scoperta all’estero. E poi ci furono tutti i vini del Sud, dall’Umbria alla Sicilia, a cui ho cercato di dare il massimo della visibilità attraverso Winebow.
Oggi, 35 anni dopo, di cosa parliamo quando parliamo di vino in America?
Parliamo di un mercato maturo, ma che continuerà a crescere. In Europa calano il consumo e anche la popolazione, in Usa al contrario sono in crescita sia l’uno sia l’altra: 320 milioni di persone nel 2015 che entro il 2051 dovrebbero arrivare a 400 milioni. Relativamente al vino, parliamo di 13 litri di consumo procapite l’anno. Non solo. Finalmente da qualche mese il dollaro ha ripreso quota sull'euro, ciò significa che è il momento buono e lo sarà ancora per parecchi anni.
L’Italia al momento è in cima a tutte le classifiche: volumi, valore, bollicine. Ma quali sono i suoi veri competitor?
L’Italia gode di una posizione privilegiata: la fascia media. In quella bassa c’è l’agguerrita Australia, ma appunto i suoi vini si identificano con prezzi – e di conseguenza qualità – bassi. La Francia si colloca nella fascia alta, quindi difficilmente potrà incrementare i volumi. Il Cile al momento è stabile. Forse i veri rivali sono l’Argentina che grazie al Malbec sta conquistando il mercato, e la Spagna, con i suoi Cava. Ma anche qui siamo nel low range.
Parlando di denominazioni italiane molto forti negli Stati Uniti mi viene da pensare a due in particolare: Prosecco e Pinot Grigio. Come si spiega il loro successo?
Facile. Il Pinot Grigio ha rappresentato una facile alternativa all’unica varietà bianca californiana di successo: lo Chardonnay. Ha incontrato il gusto di chi cercava un vino fresco, semplice e di uso quotidiano in tavola. Il Prosecco ormai non è solo un fenomeno, ma una realtà ben solida. È il vino che è arrivato nel posto giusto al momento giusto. Eravamo in piena recessione e lo Champagne costava troppo. È stata un’alternativa che in poco tempo ha preso quota: meno secco delle bollicine francesi, ha subito intercettato il gusto americano.
Ricchezza varietale, vini di fascia media, ristorazione molto presente: degli aspetti positivi italiani Oltreoceano abbiamo già parlato. Ma da italiano in America, quali crede siano gli errori del sistema vino in un mercato così concorrenziale come quello statunitense?
L’unico errore italiano è di non investire nella formazione in maniera costante. Manca totalmente il ruolo istituzionale, vedo che le poche cose organizzate dal settore pubblico, sono fatte alle meno peggio all’ultimo minuto. Ci vorrebbe un sistema educativo fisso, qui spopolerebbe, tutti amano il made in Italy. E poi le degustazioni dovrebbero essere organizzate con una visione di mercato, focalizzandosi su etichette effettivamente reperibili, invece di includere tutto e male.
Ma chi vuole comprare o degustare vino italiano negli Usa, al momento dove trova più scelta?
Sicuramente nei ristoranti. E non solo in quelli italiani, si spazia dall'asiatico al messicano. E poi in enoteca, fenomeno in ascesa in tutti gli States. Meno - molto meno - al supermercato, anche perché in alcuni Stati è tutt'ora proibita la vendita di alcol. Retaggi del Proibizionismo. Si pensi che l’alcol è l’unica materia per cui la Costituzione americana è stata scomodata per ben due volte: prima per proibirlo, poi per reinserirlo, ma con modalità differenti da Stato a Stato. Ora solo l’Ovest e il Sud ne permettono la vendita in Gdo, ma non gli Stati più tradizionalisti - e tra questi c'è anche lo Stato di New York. E, anche lì dove lo si può trovare al supermercato – come Texas, California, Arizona – le vendite sono limitate ai brand che propongono dei varietali, vini più facili e per lo più locali.
Gdo a parte, sembra che le cose vadano abbastanza bene per il vino italiano. Ma ricorda dei momenti particolarmente difficili nel corso di questi 35 anni di storia? Per esempio gli scandali sul vino che hanno coinvolto l'Italia...
Gli scandali italiani non sono mai strati vissuti come un dramma. Penso al Brunello, credo che in pochi qui abbiano capito il problema: nessuno stava a guardare quale fosse la percentuale di Sangiovese. Chiaramente ci si allarma di più se il problema riguarda prodotti nocivi, penso ad esempio al caso del metanolo. Momenti superati comunque. Ma se devo pensare ad uno particolarmente difficile, mi viene in mente l’11 settembre 2001 e quello che successe dopo: a New York, ma un po’ dappertutto, si instaurò un clima fobico rispetto ai luoghi pubblici. E lì il calo dei consumi si avvertì parecchio per i mesi e gli anni a venire. Poi c’è stata la caduta del dollaro: dal 2005 al 2014 troppo basso rispetto all’euro. Cose che hanno influito, ma non hanno comunque frenato l'ascesa dei consumi. E adesso, col dollaro in ripresa, è arrivato il momento di guardare positivamente al mercato.
E che momento è, invece, per Leonardo Lo Cascio?Quali sono i suoi progetti futuri dopo l'addio al gruppo?
A 65 anni e dopo 35 anni di intenso lavoro a Winebow, credo sia arrivato il momento di lasciare il timone. Continuerò ad essere azionista del gruppo, ma non avrò altre cariche al suo interno: dopo aver dato la vita a questa creatura e averla accompagnata nella sua crescita, non potrei immaginarmi dentro in modo diverso. Non starò un po’ dentro e un po’ fuori, insomma. Mi dedicherò ad altri progetti, non a scopo di lucro, come ad esempio la formazione universitaria per gli italiani in America, ma il vino continuerà ad essere una parte fondamentale della mia vita.
a cura di Loredana Sottile
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 19 marzo.
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